Si cambia se hai fame e sete

Caro Mellone, è vero, non nutro grandi illusioni sulla capacità dei partiti italiani (sottolineo, italiani) di cogliere le sfide che ci propone la contemporaneità. Ma questo non mi farà mai dire che la politica è una cosa orribile o inutile e che tutti i politici sono uguali. I miei maestri - primi tra tutti i miei genitori - mi hanno insegnato a non cedere al qualunquismo, a confrontarmi con gli altri, a guardare la realtà di tutti i giorni con uno sguardo sempre nuovo. Quando scoppiò Tangentopoli ero poco più che un ragazzino che si affacciava dalla finestra del giornalismo. Ricordo bene quella stagione, le molte speranze che aveva generato nella maggioranza degli italiani. In buona fede, abbiamo creduto persino nel lavacro della rivoluzione giudiziaria. In realtà quella era una finta rivoluzione che stava per portare l’ex Pci al potere in Italia. Stava per realizzarsi il paradosso storico per cui un partito sconfitto dalla Storia, sepolto dalle macerie del muro di Berlino, era destinato a governare il Paese. Ma la stessa Storia decise che il percorso italiano dovesse essere diverso, più eccentrico.   La discesa in campo di Silvio Berlusconi fu l’imprevisto, quel che non ti aspetti, l’apparizione di qualcosa di diverso dalla vecchia politica politicante. Bene o male, gli italiani nel 1994 decisero di stare dalla parte del Cavaliere. Da quel momento questo bellissimo Paese è entrato in una stagione dove si è materializzata una lotta senza quartiere per far fuori l’avversario politico con tutti i mezzi possibili. Il corpo elettorale, i cittadini, hanno prima assistito frastornati, poi sono stati mobilitati in una guerra tra guelfi e ghibellini della quale non si vede all’orizzonte una via d’uscita onorevole per tutti. La nostra generazione è passata in mezzo a questa battaglia che dura da diciotto anni, dal crollo della Prima Repubblica, con un senso sempre più grande di precarietà e incertezza. E per dirla tutta, caro Angelo, io e te siamo stati anche molto fortunati. Abbiamo avuto l’immensa possibilità di esprimere le nostre idee, di fare un mestiere che ci piace, di raccontare l’Italia che si trasforma e spesso deforma con le proprie mani. Questo mi fa dire che non tutto è da buttare e ribadire con forza che l’Italia ha bisogno solo di una grande boccata d’aria fresca. La nostra classe dirigente è sempre la stessa da decenni, indossa l’abito di una gerontocrazia che costituisce uno degli ostacoli più grandi al rinnovamento del Paese. La cooptazione è diventata la regola, la meritocrazia un’eccezione che la conferma tutti i giorni. Il giovanilismo e il nuovismo in sé però non sono un valore assoluto. Come sai, attribuisco alla tradizione particolare importanza, perché costituisce le fondamenta di quel che tu evochi con un urlo strozzato in gola, la nazione. Ciò che sembra impossibile è la realizzazione di un armonioso mescolarsi dell’esperienza con la visione di chi ha tanta energia inespressa da spendere nel campo di battaglia della vita. Il mondo corre alla velocità della luce e noi fatichiamo a stargli dietro, questa è la verità. Innovazione e ricerca non abitano qui da decenni. Sì, certo, abbiamo ancora delle cosiddette «eccellenze» ma presto anche queste verranno fagocitate dai giganti che si muovono nel teatro della sfida globale. Se voglio capire quali saranno i trend del futuro, dove sta puntando la ricerca tecnologica, come cambierà lo stesso piccolo mondo del giornalismo, non mi abbevero su fonti italiane, ma sono costretto a guardare all’America, all’Asia, ai Paesi emergenti che in realtà sono già emersi e come vulcani marini ruggiscono tutta la loro potenza. La politica è solo un pezzo - importante - di questo mosaico. Dietro ci sono anche le motivazioni dei popoli. In Italia, caro Angelo, non abbiamo più né fame né sete. Fame di conoscenza, sete di sapere. E questo non riguarda solo i «vecchi» ma anche i giovani. Guardati intorno, dai un’occhiata da entomologo ai nostri coetanei e a quelli più giovani. Fallo tutti i giorni e durante il week end. Io e te stiamo a lavorare, a sudare sulle carte, a scrivere, a leggere, studiare. Non esistono sabati o domeniche, e le vacanze sono un lusso che non ci possiamo più permettere da tempo. Io ho ancora fame e sete. Ne ho sempre di più. Ma ho la sgradevole sensazione di appartenere a una minoranza, di abitare in una terra di mezzo nella quale è troppo difficile stare perché ogni giorno sei in discussione con te stesso e niente è certo, a cominciare dal posto di lavoro. E allora tanti nostri coetanei preferiscono voltare lo sguardo, fare spallucce, urlare ai quattro venti «governo ladro» e fottersene della responsabilità di stare al mondo. Entra in discoteca: schiere di lobotomizzati. Accendi la televisione: battaglioni di deficienti. Prendi un foglio e chiedi a caso a qualcuno di questi giovanotti di mettere nero su bianco un pensierino: torme di analfabeti di ritorno. Riflettere sulla nostra generazione? Lo stiamo già facendo, scartavetrando le parole. Prendere il testimone di questa stagione e inaugurarne un’altra? Sono pronto. Ma la domanda è: quanti hanno ancora fame e sete?