Così affoghiamo nella transizione
Caro Sechi, rileggendo i tuoi editoriali dei giorni scorsi, che raccontano con lucida disillusione perché non dobbiamo aspettarci troppo dal prossimo avvenire della politica, voglio sottoporti una riflessione veloce ma costernata e, se mi permetti, un poco disperante. Ho fatto parte di coloro che hanno cominciato a far politica, a destra, quando ancora il muro di Berlino stava in piedi e c’era il pentapartito (poi ho fatto altro, come tanti, ma la passione civile resta intonsa). Sono nato dopo il 1968, figlio degli anni Ottanta, parte di coloro – come mi ha scritto una volta Stenio Solinas – che hanno avuto la fortuna di non svernare politicamente negli anni di Piombo e diventare grandi nella seconda Repubblica, lontani dalla partitocrazia e dalla politica al tempo stesso troppo ideologica e troppo malandrina. Abbiamo vissuto la stagione di tangentopoli come una palingenesi, che ci desse la possibilità di vivere finalmente in una nazione con una classe dirigente all’altezza. Una patria di cui essere orgogliosi. Chi faceva politica vent’anni fa ricorda benissimo l’atmosfera di quella stagione, la sensazione che qualcosa stava cambiando sul serio, la nuova mobilitazione popolare, la ricerca di ciò che fu denominata "rivoluzione italiana": rivoluzione della legalità, del merito, della trasparenza, della qualità della classe politica, dello spirito civico, di un patriottismo nuovo e solare, e pure di quelle benedette riforme che ancora inseguiamo come un eterno mantra futuribile. La destra, in quegli anni, era un grande, grandissimo motore di cambiamento politico, un vettore di entusiasmo generazionale: marce, mobilitazioni, nuovi circoli, un dibattito culturale confuso eppure venato dall’entusiasmo di chi, per la prima volta, s’affacciava alla possibilità del governo delle idee e delle amministrazioni. Adesso penso che sia arrivato il momento di porsi questa domanda, e non è un caso che si sia nei pressi dell’anniversario del sacrificio di Paolo Borsellino. Sono passati diciott’anni dal crollo della prima Repubblica, diciassette dai primi segni della primavera della nuova politica, sedici dalla prima vittoria del centrodestra, di Berlusconi e di Fini e della Lega, in un sistema politico bipolare e rivoluzionato: che cosa resta di quello splendido impasto di sentimenti, emozioni e progetti? E soprattutto: la realizzazione di ciò che sognavamo ha soddisfatto le nostre aspettative? Oggi, francamente, mi riesce difficile rispondere di sì. E dunque, caro Mario, la mia, la nostra generazione, quella che adesso dovrebbe ricevere il testimone di quella stagione, sta perdendo? Giorgio Gaber, dieci anni fa, cantava che i nostri genitori avevano perso la possibilità di metter su un’Italia migliore. Ma subito dopo se la prendeva con quelli arrivati dopo: «Non vedo più nessuno che s’incazza fra tutti gli assuefatti della nuova razza». Quella razza di assuefatti, ovviamente, sono i trentenni e quarantenni di oggi. Ecco. Ci siamo abituati a convivere con una parola che è diventata una parolaccia: transizione. Sono vent’anni che l’Italia è in transizione, e mi sembra che la nostra nazione si sia assuefatta a una strana coazione a ripetere, come un vecchio che trascorre sempre la stessa giornata, noiosa e difficile, e va a coricarsi dicendo: domani andrà sicuramente meglio. E invece si sveglia e si accorge che domani è esattamente identico a ieri. Abbiamo sperimentato l’alternanza di governo, campagne elettorali dal sapore apocalittico, appelli alla mobilitazione contro l’avversario per l’occasione travestito da nemico, promesse di cambiamento epocale. E alla fine, al netto di una sequenza vorticosa e incontrollabile di eventi, l’Italia appare come il Prodi-semaforo nell’indimenticabile imitazione di Corrado Guzzanti: immobile. Bloccata. In attesa di qualcosa che deve accadere ma che non accade mai. Lasciamo stare, per una volta, i sondaggi. Basta ascoltare la gente in strada per constatare che gli italiani sono rassegnati, abulici, sempre più attaccati alla manutenzione dei fatti propri, convinti che la politica non cambia, che lo spirito civico non risorge, che quest’Italia del 150esimo è una nazione rabberciata e unificata solo nei difetti del nostro popolo. Così, in questa percezione generale di una mancanza di alternative, galleggiamo. Galleggiamo in uno spazio pubblico dove i partiti, idealmente delegati a rappresentare bisogni e interessi della gente, sono debolissimi nel radicamento sociale e autoreferenziali nella selezione delle proprie élite. Galleggiamo in un mare dove un giorno sì e l’altro pure spunta una nave pirata in forma di "cricca", che restituisce un’idea e un sapore intollerabili di marcio, di putrido, di pratiche corruttive identiche al passato che non passa. Galleggiamo nell’atmosfera di un dibattito pubblico rarefatto e intorpidito, dove troppo spesso non si confrontano davvero grandi idee di governo ma solo interessi di piccolo cabotaggio. Galleggiamo nella speranza di qualche miracolo, nella speranza del Grande Scatto. Aspettiamo. Speriamo. Galleggiando. In questo scenario, caro direttore, la nostra generazione sta perdendo. Sta perdendo passione. Sta perdendo entusiasmo. Sta perdendo la ragione dell’impegno pubblico, in ogni sua forma. Sta perdendo tempo, il suo tempo. A forza di galleggiare, rischia di annegare. Forse è arrivato il momento di sviluppare una riflessione pubblica, sincera, dura, spigolosa, né retorica né edulcorata, su due temi. Primo: dopo tutto il casino che abbiamo fatto, ci meritiamo davvero questo spettacolo a tratti osceno? Secondo: vogliamo cominciare a interrogarci sull’Italia e la generazione che dovrebbe caricarsi sulle spalle, prima o poi, il futuro di questa nazione? Sennò, a forza di fare il morto per restare a galla, si muore davvero.