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L'ora della verità per la vita del Pdl

Il premier Silvio Berlusconi

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Cosa sta accadendo al Pdl? Sono in tanti a chiederselo e vista la temperatura vulcanica che si è raggiunta, non c'è molto tempo da perdere nel cercare una risposta. Il livello dello scontro è tale che in queste condizioni scommettere su un'esplosione del partito non è più un azzardo. Nato dalla fusione di Forza Italia e Alleanza nazionale, benedetto dall'accordo di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, vincitore delle elezioni politiche (2008), europee (2009) e regionali (2010), si ritrova, a soli due anni dalla nascita, avviluppato in una crisi interna molto seria. Il patto siglato nel marzo del 2009 durante il congresso fondativo a Roma non ha retto, i due protagonisti del centrodestra italiano hanno provato a fondere le rispettive esperienze politiche e umane, ma le distanze invece di colmarsi sono aumentate a tal punto che ormai siamo a una separazione in casa alla quale - stando così le cose - manca soltanto la certificazione del divorzio. Mentre il partito nel Paese continuava a mietere consensi, in maniera inversamente proporzionale il rapporto tra Berlusconi e Fini si sbriciolava. La drammatica direzione del Pdl di qualche mese fa, la lite in diretta tv tra Silvio e Gianfranco, il «che fai mi cacci?» con cui il presidente della Camera rispondeva al discorso del premier, sono stati il «de profundis» per tutta la precedente esperienza del centrodestra. Da quel momento tutti hanno compreso che si stava aprendo un altro capitolo di questa storia, ma un'accelerazione delle difficoltà di queste dimensioni non era prevedibile. Berlusconi in questi anni è sempre apparso indomabile, un uomo con una enorme forza di recupero, un leone nei momenti di difficoltà. Non sappiamo ancora se sarà in grado di replicare anche stavolta come gli è capitato di fare quando tutti pensavano di averlo messo alle corde e potergli sferrare il colpo del ko, ma le difficoltà sono tutte là e traspaiono anche dai comunicati e gli ultimatum che partono da Palazzo Chigi negli ultimi giorni. Ci sono momenti in cui sembra di assistere agli ultimi giorni della Democrazia cristiana, a quel 1994 in cui il più grande partito italiano si inabissava, altri ancora in cui invece le possibilità di recupero sembrano ancora intatte. Io penso che siamo a un passaggio decisivo della storia di Berlusconi e del berlusconismo come fenomeno politico e sociale. Ci sono almeno tre motivi che hanno aggravato la situazione del Pdl: 1. La legalità. Fini ha puntato subito su questa battaglia, ma aveva le polveri bagnate e i i suoi discorsi si infrangevano nel vuoto. Le inchieste giudiziarie che si sono aperte a ripetizione e hanno coinvolto importanti esponenti del partito hanno fornito all'ex leader di An le armi retoriche per mettere sotto pressione Berlusconi. Le dimissioni di Scajola e Brancher sono un fatto chiaro, Berlusconi le ha chieste e ottenute. É un suo punto a favore. Ma è altrettanto chiaro che un partito non può farsi decimare per via giudiziaria e per questo deve avere una strategia limpida. 2. Il federalismo e la Lega. L'influenza sempre più marcata della Lega - rafforzata dall'affermazione nelle regioni del Nord - ha offerto un altro argomento non solo a Fini e ai suoi alleati, ma anche al ceto politico del Sud che non ha mai gradito l'asse del Nord e i vertici bilaterali tra Silvio e Umberto ad Arcore. Su questo punto, Fini potrebbe addirittura allargare il suo consenso. Non è un mistero che il commissariamento della politica del Pdl in molte regioni meridionali sia uno spettro. Ma attenzione, dietro a questo fantasma se ne agita uno ancora più grande: la secessione degli apparati politici meridionali dal partito e l'inizio di una polverizzazione del centrodestra che i finiani potrebbero portare a loro vantaggio. Il primo test lo avremo con la regione Molise dove il presidente del Pdl, Iorio, rischia un commissariamento tremontiano a causa del debito sanitario, nonostante la presenza di un piano di rientro reale. 3. L'immobilismo del partito. Dopo un buon avvio e un sufficiente lavoro di sintesi dei coordinatori (Verdini, Bondi e La Russa) la vita interna del Pdl si è rinsecchita, gli spazi di decisione e dibattito ristretti. Da un lato molte energie sono state assorbite dal governo, dall'altro il distacco tra il centro e la periferia con la creazione di veri e propri feudi locali, hanno messo il Pdl in un recinto stretto. Il risultato è paradossale: il Pdl, nato con il capo carismatico, si è ritrovato in pochi mesi a fare i conti con un proliferazione di correnti da record. Non ci sono solo gli ammutinati del Bounty, i finiani, ma una miriade di gruppi e clan che si fanno la guerra gli uni con gli altri. Si chiama balcanizzazione e un partito come quello di Berlusconi oggi si ritrova senza gli strumenti per regolare la propria vita interna. Lenin si chiederebbe: che fare? Dobbiamo per forza ritornare ai tre punti dai quali siamo partiti. 1. La legalità. É innegabile che siamo a un punto di non ritorno e serve una risposta garantista e trasparente sul piano dei comportamenti. Per questo al Berlusconi che dice «impedirò il ritorno di un clima giacobino» deve seguire il leader di partito e presidente del Consiglio che prende decisioni scomode, ma non rinviabili. L'altro ieri ho auspicato il passo indietro di Denis Verdini e penso che lo stesso debba avvenire per il sottosegretario Nicola Cosentino. Non siamo di fronte a un problema giudiziario ma politico. Le carte sull'inchiesta Carboni sul piano del codice penale mi sembrano deboli, il reato più serio è quello di coglioneria cronica, e per questo siamo di fronte al «Polverone P3». Ma leggere del complotto che un pezzo importante del Pdl preparava contro il candidato governatore della Campania - Stefano Caldoro, scelto da Berlusconi - francamente mi impressiona e penso che tutto non possa non avere delle conseguenze politiche. Un partito serio serra i ranghi di fronte alla presunzione di innocenza, ma prende decisioni politiche dure di fronte a comportamenti che ne indeboliscono la vita democratica e minano il patto di lealtà tra i suoi dirigenti, gli iscritti, i militanti e gli elettori. 2. Il federalismo e la Lega. Del Carroccio non si può certo fare a meno, ma un governo a trazione leghista non può durare a lungo. La chiusura della Lega sull'Udc è un chiaro segnale: il partito di Bossi vuole essere l'unico ad avere il potere di interdizione su tutto, ma così facendo il Pdl si condanna a perdere il suo granaio di voti, il Mezzogiorno. Non solo, il federalismo fiscale, nel caso di uno sbrindellamento istituzionale, ha in sè tutti gli ingredienti per sfociare in una secessione di fatto del Paese. Sono scenari di cui bisogna tener conto e per questo con l'Udc bisogna aprire un dialogo serrato sui problemi e trovare, di volta in volta, soluzioni condivise. Questo consentirebbe a Berlusconi di essere il regista della partita politica e non l'uomo che gioca di rimessa. 3. L'immobilismo del partito. Qui le chiacchiere stanno a zero: il Pdl deve riprendere il suo cammino e questo può ripartire solo se il nocciolo duro di Forza Italia e la parte legittimista di An ritrovano il senso della propria missione politica. É un'operazione che va fatta subito, perché i soggetti più deboli politicamente hanno cominciato a rendersi autonomi, a distinguersi, a guardarsi intorno in cerca di nuove sponde. Alcuni stanno già ragionando in termini di post-berlusconismo, altri sono invece nel filone dell'iper-berlusconismo. In ogni caso, in questa situazione sempre più sull'orlo dello sbrego istituzionale, una rifondazione berlusconiana non è possibile, il Paese non è pronto a un altro strappo, una crisi al buio potrebbe avere esiti nefasti e il ceto politico del centrodestra ne uscirebbe distrutto. Presto scopriremo se il Pdl è la Dc del 1994 o ha ancora le energie per rispondere alla decimazione giudiziaria e al nemico interno con la sola arma possibile: la politica.  

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