La stampa in silenzio non ci piace
Cari lettori, il mondo sta uscendo con fatica dalla recessione e in Italia la ripresa è lenta. Siamo ancora con un piede nella crisi. Il settore della carta stampata è stato colpito in pieno dall'arretramento dell'economia, con effetti di sistema molto forti. Per la prima volta dal 1939 la diffusione dei giornali è scesa sotto i cinque milioni di copie giornaliere, il consumo di informazione sta cambiando, le nuove generazioni sono pienamente digitalizzate e la rete, gli smarthphone e l'iPad sono destinati a rivoluzionare il nostro mondo per sempre. La carta non è più l'unico supporto per leggere le notizie e in futuro sarà sostituita da tavolette intelligenti, fogli di inchiostro elettronico, accessori biotech che si integrano con il corpo. È il mondo del futuro, ma nei laboratori avanzati è un presente al quale si lavora con velocità e al confronto il nostro settore appare piccolo e chiuso in se stesso. Quando ascolto certi discorsi che si fanno nell'ambiente dell'editoria tradizionale, mi ricordo una frase pronunciata da Darryl F. Zanuk, fondatore della 20th Century Fox, nel 1946: «La televisione non potrà reggere il mercato per più di sei mesi. La gente si stancherà subito di passare le serate a guardare dentro una scatola di legno». Veggente. L'informazione non morirà, anzi la sua domanda crescerà, ma il mercato e i mezzi cambieranno. Nel bel mezzo di questa crisi e mutamento di scenario, la maggioranza al governo ha presentato una pessima riforma della legge sulle intercettazioni. Il centrodestra aveva una buona occasione per varare un testo equilibrato, attento ai diritti della difesa, di chi fa le indagini, di chi dà le notizie, una legge attenta all'impatto che hanno le nuove tecnologie. Il risultato è un pasticcio colossale che non serve a nessuno. Affidare agli avvocati una materia così delicata è stato un grave errore. Più volte ho spiegato le ragioni del mio no a un simile progetto. Più volte mi sono permesso di consigliare ai pochi che hanno ancora voglia di ascoltare un discorso franco e non viziato dal pregiudizio ideologico, un approccio diverso, una visione più seria e professionale del problema, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti: la legge non aiuta chi fa le indagini, non garantisce la difesa, punisce i giornalisti e gli editori e non impedirà a nessuno di pubblicare le notizie. Chiunque potrà caricare verbalate e intercettazioni a quintali su siti internet residenti all'estero, ma senza poter contare sulla mediazione professionale del giornalista e sulla responsabilità del direttore di testata. Un capolavoro di pigrizia mentale ed imperizia. I giornalisti avevano mille modi per spiegare cosa sta succedendo, argomentare di fronte ai propri lettori, suggerire una via diversa. E invece il nostro sindacato ha scelto, ancora una volta, la via più banale e per me in questo caso controproducente: lo sciopero. Sciopero che colpisce le case editrici, inietta ulteriore disaffezione tra i lettori e non dà il benché minimo fastidio al potere. Anzi, visto che Berlusconi aveva invitato i lettori a scioperare, il sindacato dei giornalisti gli fa un favore lasciando le edicole vuote per un giorno. Il Tempo e il suo direttore hanno un'idea diversa: i giornali servono a raccontare i fatti e offrire opinioni, chi sceglie di non andare in edicola cede il suo spazio al vuoto, al nulla, al silenzio. Si dichiara impotente, non crede nella forza del discorso pubblico, pensa che l'assenza sia più forte della presenza della parola scritta. Trovo questa situazione paradossale, dannosa per la libertà del dibattito pubblico e per i bilanci delle aziende editoriali. Mentre siamo impegnati, tutti quanti, a cercare nuovi spazi vitali e mercati per la carta stampata e l'informazione, ci tarpiamo le ali. Che senso ha ridursi al mutismo nel momento in cui c'è così tanto da raccontare ai propri lettori? La giornata di ieri è stata esemplare sotto questo punto di vista. Berlusconi ha detto che la maggioranza andrà a casa se la manovra non passa. L'ha detto in tv, ma sui giornali questa frase assume un significato ancora più grande perché i quotidiani - quando sono fatti bene - non sono un microfono aperto e una telecamera accesa, ma la parola scritta che diventa analisi, retroscena, inchiesta politica. Per questo tutti i politici - di destra, di sinistra, di centro - non amano la carta stampata: i giornali non si fermano in superficie, approfondiscono, svelano. Perché mai non dovremmo essere in edicola il giorno in cui Berlusconi dice che se la Finanziaria non passa la maggioranza va a casa? L'ha fatto dopo un incontro politico di routine con addirittura una nota ufficiale per dire no alle correnti interne del Pdl, poi ieri rivendicando la scelta di mettere la fiducia sulla Finanziaria. Credo che queste due mosse segnalino l'esistenza di un problema interno nel Pdl. Per la prima volta Berlusconi deve mettere i puntini sulle «i», ricordare chi ha lo scettro, avvisare i naviganti del suo partito. Berlusconi questi segnali non li manda per caso, siamo vicini a un giro di boa che da qui all'autunno porterà dei cambiamenti. Evocare la caduta della maggioranza - e lo scioglimento delle Camere - per Berlusconi è un modo di ricordare a tutti che il destino di ognuno è legato a quello del governo. Ma nello stesso tempo è un test che il premier fa per verificare la tenuta della sua maggioranza, contarsi, contare e stanare la consistenza del dissenso. Uno scenario tutto politico sul quale, se dovessi scommettere, non me la sentirei di puntare sul cavallo della crisi di governo e caduta di Silvio per ragioni puramente interne. Il pentolone del Pdl sta bollendo, ma forse bisognerebbe dedicare uno sguardo in meno alla tenzone tra Silvio e Gianfranco e osservare con cura cosa si agita nell'economia del Paese, nella sua bassa crescita, nelle classi sociali ipertassate, nelle speranze al lumicino delle nuove generazioni, nell'assenza di competizione e merito a tutti i livelli. C'è un problema di carattere della nazione, di identità, di classe dirigente e ricambio generazionale. Le biografie dei condottieri di oggi e di quelli che si propongono per il domani parlano da sole. Per queste ragioni bisogna sempre tenere a mente che sono quasi sempre gli eventi esterni, gli imprevisti, ad accelerare i processi politici. Il fatto che non ti aspetti e cambia tutto. Ho scritto più volte che Berlusconi non è sostituibile all'interno del centrodestra, che intorno a lui c'è il deserto, che il Pd si è autoridotto a una casa di rassegnati, ma altrettanto francamente bisogna dire che su queste basi è arduo mandare avanti il governo fino al 2013. Tre anni di logoramento interno sono impossibili da reggere anche per un indomabile come Berlusconi. Quando Berlusconi dice «si va a casa», ha in mente le elezioni come unico scenario possibile a una crisi. Soluzione logica dal punto di vista dela sostanza politica, del rapporto tra elettore ed eletti, del berlusconismo che non prevede soluzioni intermedie, transizioni e soprattutto dimissioni. Ma in realtà non è matematico che si vada a votare e lo scenario europeo non contempla una crisi di governo e un ritorno alle urne per l'Italia. Più che sciogliere le Camere, si scioglie il Paese. Siamo usciti dalla recessione (non dalla crisi) con le ossa meno rotte di altri solo perché le famiglie italiane risparmiano e le nostre banche sono meno spericolate di altre, ma i conti pubblci sono sempre quelli di un Paese con il quarto debito pubblico del mondo e la nostra vita dipende dalle aste dei titoli di Stato. Vi sembra possibile votare in questo scenario? A me no, ma in ogni caso, come scriveva Mogol, il futuro lo scopriremo solo vivendo. E scrivendo.