Scalfari processa e condanna Berlusconi per mafia e lancia l'esca a Fini
Suiquali troneggia questo titolo: «Io eretico? Sto con la legalità». Scalfari non si sarà probabilmente trovato a disagio nel vedere il suo affondo affiancato alla «eresia» che il presidente della Camera ha rivendicato nei riguardi di Berlusconi questa volta sulla nuova disciplina delle intercettazioni. Da Fini invece è quanto meno augurabile che sia stato avvertito qualche imbarazzo di fronte agli argomenti usati da Scalfari per partecipare, diciamo così, alla sua offensiva contro Berlusconi. Il cui conflitto - e che conflitto - con la legalità invocata o difesa da Fini risalirebbe a ben prima del suo impegno politico, ed anche delle stragi mafiose del 1993, che alcuni vorrebbero propedeutiche alla fondazione di Forza Italia. In verità, del nesso fra quelle stragi e l'inizio dell'avventura politica di Berlusconi neppure Scalfari, bontà sua, si mostra convinto, per quanto nelle Procure di Caltanisetta, di Palermo e di Firenze si continui a indagare e a sospettare, anche dopo che i giudici d'appello del senatore berlusconiano Marcello Dell'Utri hanno sentenziato che «il fatto non sussiste». «Non credo che questo lavoro sboccherà in una accertata verità giudiziaria», scrive con spirito insolitamente garantista il fondatore del principale giornale di riferimento dell'opposizione. Al quale tuttavia basta e avanza la condanna appena confermata in appello a Dell'Utri per le sue presunte frequentazioni mafiose sino al 1992 per estenderle a Berlusconi, che in quel processo non era per niente imputato, e per rappresentarlo come un sicuro e pericolosissimo prodotto della mafia. Qui Scalfari, nel suo farneticante attacco al presidente del Consiglio, non solo torna giustizialista, ma si avventura anche ad assegnare a tavolino i compiti alla Corte di Cassazione. Dove Dell'Utri con il suo già annunciato ricorso avrebbe il diritto di aspettarsi al massimo il rinvio «ad un'altra Corte d'Appello». Che potrebbe solo motivare meglio, senza ulteriori «errori di legittimità», una condanna doverosamente scontata. Evidentemente neppure la lunga e clamorosa vicenda giudiziaria dell'ex ministro Calogero Mannino, assolto per mafia dalla Cassazione dopo un doppio passaggio in appello, ha insegnato a Scalfari un po' di prudenza. Troppo forte evidentemente è il suo interesse, tutto politico, ad una condanna mediatica di Berlusconi per mafia, visto che gli è mancato un processo in tribunale insieme con l'amico ed ex collaboratore Dell'Utri. Prima di chiamare in causa nel suo ragionamento persino il capo dello Stato, invitato praticamente a fare «fino in fondo quello che deve» contro il presidente del Consiglio, Scalfari liquida così la questione berlusconiana: «Quando un imprenditore che ha subìto fin dall'inizio della sua carriera un condizionamento e una soggezione mafiosa durata almeno vent'anni, conquista il potere, il suo obiettivo non può essere altroché quello di blindarlo, affievolendo tutti i contropoteri di garanzia e di libera informazione». È proprio qui che Scalfari nella sua perfida partita passa la palla a Fini. Che dovrebbe avvertire il buon gusto, almeno, di ributtargliela in faccia. Ma lo farà? Francesco Damato