Caro Bossi, il Lazio è una regione virtuosa
Fermi tutti: avevamo scherzato. Cinque giorni fa Umberto Bossi annuncia che per le tasse alle regioni previste dalla manovra ci si regolerà in base a due criteri: “flessibilità” e “virtuosità”. Di più: il leader della Lega e ministro delle Riforme aggiunge che tra regioni e Giulio Tremonti “è scoppiata la pace”. In altri termini, gli 8,5 miliardi chiesti alle amministrazioni locali non cambiano nei saldi finali, ma viene lasciata ai governatori la flessibilità nell’applicare i piani di rientro dal debito sanitario, a seconda di un indice, appunto, di virtù. Il quale, sempre secondo Bossi, terrà conto non solo dei debiti storici, accumulati spesso da giunte e colore politico non più in carica ma anche dall'andamento della spesa corrente fotografato ad oggi. E quali sono i parametri per valutare se una regione è virtuosa e meritevole di flessibilità? Lo spiegano le cifre contenute nella monumentale relazione sul federalismo fiscale pesentata alle Camere da Tremonti, sulla base dei dati armonizzati (cioè calcolati con parametri coerenti) di regioni, Istat e ministero dell'Economia. Le voci da prendere in considerazione, afferma il testo, sono due: la spesa per l'amministrazione generale e gli organi istituzionali, e la spesa per il personale. Ci sembra, ma soprattutto così pare a Bossi, Tremonti e Calderoli, un criterio giusto: fotografa appunto il presente, e non il passato, e – visto che il tutto è aggiornato a giugno 2010 - individua comportamenti e responsabilità dei governatori in carica. E dunque che cosa ne esce? Che fissato a 100 lo spartiacque tra regioni più virtuose e non, la virtù massima è della Lombardia con parametro 48 per le spese generali e istituzionali e 43 per quelle di personale. A seguire Liguria, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana. E subito dopo il Lazio: che supera di poco quota 100 nelle spese di personale (è a 105), ma ne sta molto al di sotto in quelle di amministrazione generale e organi istituzionali, con 84. Per intenderci, il Piemonte è meno virtuoso del Lazio, e così Marche e Puglia, per non parlare dell'Umbria, che nelle spese di personale è a quota 170 e nelle spese generali a quota 156. Naturalmente non manca una vandea di regioni che la virtù le vedono col binocolo: al top c'è il Molise, seguono Basilicata, Calabria, Campania e Abruzzo. Tutto questo per le regioni che hanno la sventura di essere a statuto ordinario. Quelle a statuto speciale fanno come sempre repubblica a sé. Per esempio, prendiamo il costo annuo per cittadino delle spese di personale. La media nazionale delle regioni ordinarie è di 49 euro, nel Lazio è di 53, in Sardegna di 148, in Friuli di 161, in Sicilia di 349, in Trentino-Alto Adige di 1.775, in Val d'Aosta di 2.207 (sì, avete letto bene). Vediamo le famigerate pensioni d'invalidità. La percentuale sulla popolazione raggiunge il top in Sardegna (4,8), Umbria (4,6) e Abruzzo (4,4). Il Lazio è a quota 2,8, molto meno di tutte le regioni rosse. Non poteva infine mancare il «superindice»: esamina l'incidenza della spesa per il personale sulla spesa corrente complessiva. Ebbene, rispetto a una media dell'1,99 delle regioni a statuto ordinario, e del 4,26 comprese quelle a statuto speciale, il Lazio è a quota 1,57. Poco più del Veneto (1,52). Meno di Piemonte, Toscana, Umbria. Dopo questa overdose di cifre e percentuali, sarebbe stato legittimo aspettarsi da Bossi & Tremonti un comportamento coerente: flessibilità in relazione alla virtù. Invece ecco, annunciati il primo luglio, gli aumenti automatici delle addizionali Irpef (più 0,3 per cento) ed Irap (più 0,15), causa debito sanitario per Lazio, Campania, Calabria e Molise. In tutto, 629 milioni che colpiranno per il 60 per cento i romani ed il Lazio. E questo perché Roma e dintorni ha il grave torto di essere una sorta di Nord del Centro-Sud: ha il secondo Pil d'Italia, e un'area industriale e produttiva che cresce ogni anno, anche durante la crisi, molto più della madia nazionale. E dunque la raffica di tasse, ai quali potremmo aggiungere le possibili addizionali comunali, l'aumento dell'Ici sulle seconde case, la tassa sui servizi ed il famigerato pedaggio sulla Roma-Fiumicino o sul raccordo anulare. E' vero, il Lazio ha un macigno pesantissimo: un debito sanitario di circa 12 miliardi; cifra equivalente al debito del Campidoglio. Eredità delle amministrazioni precedenti, come certificato dalla Corte dei Conti. Questo ovviamente non significa prendere i debiti e nasconderli sotto il tappeto: ma se applicassimo la stessa logica e metodi al governo nazionale, come la metteremmo con il famoso «debito pubblico ereditato dalla prima repubblica e dalla sinistra», del quale sempre si lamentano il Cavaliere e Tremonti? Esistono due pesi e due misure? Il sospetto ci viene confermato dal duro attacco mosso oggi dal ministro dell'Economia alle regioni del Sud, «cialtrone» perché non spendono i fondi europei. Giusto: forse i lettori ricorderanno che ne parlammo dettagliatamente il 26 giugno. Peccato però che Tremonti abbia citato solo uno dei due fondi europei per i quali esiste un dossier della Ragioneria dello Stato: quello da 43,6 miliardi per l'obiettivo Convergenza destinato al Mezzogiorno. In realtà di fondi esaminati dalla Ragioneria ce n'è anche un altro, denominato obiettivo Competitività, e destinato al resto d'Italia. Qui la regione che ha speso meno di tutte è la Lombardia, seguita a breve distanza da Lazio, Marche, Toscana e Umbria. E dunque torniamo all'inizio: Bossi aveva scherzato? Virtù e flessibilità valgono solo sopra il Po? Basta saperlo.