Quale libertà di stampa?
Vi è qualcosa di grottesco e tuttavia di emblematico nella foto che i lettori possono vedere in questa prima pagina de Il Tempo e che riprende accanto alla presidente del Pd Rosy Bindi durante la manifestazione di ieri contro la legge sulle intercettazioni Patrizia D’Addario: sì proprio lei, la escort -per non dire di meno inglese e più romano- che s’infilò tra le lenzuola del presidente del Consiglio con videotelefono e registratore per uso di ricatto, non certo di piacere, o di collezione, o d’album di ricordi. Se Silvio Berlusconi fu imprudente nello scambiare una donna di queste abitudini e di questo mestiere per un’amica, ancora più imprudente è questa presunta sinistra che la sventola sfrontatamente come una bandiera contro una legge che sarà pure fatta male, come ha lamentato più volte anche il direttore Mario Sechi; che meriterà pure ulteriori modifiche, come è praticamente tornato ieri a chiedere il presidente della Repubblica da Malta, ma risponde indubbiamente alla necessità di cambiare la bislacca e scandalosa disciplina attuale delle intercettazioni. Di questa necessità peraltro anche la sinistra era consapevole e convinta, persino nel programma elettorale diffuso due anni fa dal Pd. Ma essa ha notoriamente la memoria cortissima, e la disinvoltura di un pagliaccio. Quella foto della Bindi e dell’Addario insieme è un insulto, in fondo, anche al capo dello Stato. Alle cui parole così frequentemente e disinvoltamente si è soliti richiamarsi da certe parti per dare dignità ad una opposizione che di propria non ne ha per niente. In queste condizioni si può comprendere, e per parte nostra anche condividere, l’amarezza, anzi la rabbia che Silvio Berlusconi avverte di fronte alle offensive degli avversari. Ogni provvedimento, o situazione, che si possa a torto o a ragione collegare con le sue vicende legali diventa terreno di scontro epocale: dalla disciplina delle intercettazioni alla versione costituzionale del cosiddetto lodo Alfano bocciato dalla Corte Costituzionale per la sospensione dei processi alle più alte cariche dello Stato durante l'esercizio dei loro mandati, dall’uso della disciplina transitoria del legittimo impedimento processuale del presidente del Consiglio e dei ministri alla relazione, addirittura, dell’altro ieri del presidente della commissione parlamentare antimafia Giuseppe Pisanu. Che, per quanto si riferisse alle trattative che si sarebbero svolte nel 1992 dopo gli attentati mortali ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino tra la mafia e lo Stato, o pezzi di esso, oggetto peraltro di un processo in corso contro il prefetto Mario Mori, è stata sfacciatamente contrapposta dai nemici di Berlusconi alla sentenza con la quale la Corte d’Appello di Palermo ha appena spazzato via la storia di tutt’altra trattativa. È quella sognata dall’opposizione e da alcune Procure, e alimentata da pentiti tipo Gaspare Spatuzza, secondo la quale la mafia - udite, udite - nel 1993 negoziò e regalò a Berlusconi e Marcello Dell’Utri un bel po’ di stragi per aiutarli a fondare Forza Italia e a vincere le elezioni anticipate del 1994. Sono cose da manicomio, che solo in un sistema giudiziario impazzito come quello italiano possono diventare lunghe e ostinate tracce d’indagini. Finirà che interdiranno i giudici d’appello di Palermo perché, pur avendo condannato Dell’Utri per i contatti con esponenti mafiosi che avrebbe avuto sino al 1992, si sono permessi di non credere alle fandonie sulle stragi propedeutiche alla nascita del partito di Berlusconi, assolvendo perciò con formula piena il senatore del Pdl dagli addebiti successivi. Detto tutto questo, e riconosciutogli il diritto all’indignazione, il presidente del Consiglio merita tuttavia un rimprovero. Al quale non penso ch'egli possa continuare a sottrarsi lamentando le resistenze che pure non sono di certo mancate all'interno del suo schieramento politico da partiti o uomini poco coraggiosi o infidi, magari attratti dall'illusione di ricavare dalle sue difficoltà chissà quali vantaggi, di successione o di altro tipo. Il rimprovero è di non avere affrontato la questione della Giustizia come il toro per le corna, investendo tutto il suo prestigio e il suo credito elettorale in una riforma radicale del sistema giudiziario, sempre annunciata ma mai veramente portata davanti alle Camere. Egli ha speso troppe energie per inseguire e portare a casa, con i suoi avvocati parlamentari, provvedimenti più o meno tampone tanto facili da essere strumentalizzati propagandisticamente dai suoi avversari quanto inutili a fermare l’esondazione politica di un potere giudiziario che di fatto pretende da troppi anni ormai di governare questo povero Paese. E che sciopera, come ha fatto ieri, contro il legittimo governo in carica contestando anche le timide riserve espresse dal vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.