Dell'Utri condannato a sette anni
Le forze politiche interpretano in maniera opposta la sentenza della Corte d'Appello palermitana che ha ridotto la pena inflitta a Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. Il centrodestra, nonostante i sette anni inflitti al senatore, è soddisfatto: perché la sentenza, sottolineano i suoi esponenti, tracciando una linea netta fra prima e dopo il 1992, smonta il «teorema» secondo il quale Forza Italia sarebbe nata assecondando la mafia. Le opposizioni, Idv in prima linea, sostengono invece che la Corte ha ribadito che Marcello dell'Utri, il più importante collaboratore di Berlusconi in Sicilia, ha avuto rapporti rilevanti con Cosa nostra. Molti del Pdl confidano nella Cassazione e esprimono solidarietà al senatore. Anche Umberto Bossi si schiera dalla parte di Dell'Utri: «Un conto è provare che uno è mafioso; l'appoggio esterno non dimostra niente, non dimostra che uno è mafioso». Ma dal coro manca la voce dei finiani: «Non è proprio il caso di festeggiare», dice Fabio Granata. Ma il Pdl, nella sua maggioranza, è comunque soddisfatto. La Corte d'Appello, dice il coordinatore del partito Denis Verdini, ha compiuto un «primo, decisivo passo per mettere fine a 16 anni di vergognose teorie complottiste», portate avanti da «alcuni pm, con il contributo di pseudo-pentiti» e con l'appoggio di «un preciso gruppo editoriale». E abbastanza soddisfatto è anche il diretto interessato che sottolinea però come quello emesso dai giudici palermitani sia «un verdetto pilatesco». «Posso dichiarare soddisfazione e il mio stupore. Il verdetto è pilatesco - spiegato in una conferenza stampa al Circolo del Buon governo di Milano -. Ha dato un contentino alla procura palermitana ma anche una grossa soddisfazione all'imputato perché ha escluso tutto ciò che riguarda le ipotesi dal '92 in poi». «Finalmente la smettiamo - aggiunge - con questo discorso della mafia, delle stragi, della politica. Andassero a cercare se veramente ci sono, e probabilmente ci sono, i responsabili di quel periodo tremendo della storia del nostro Paese che ancora stiamo vivendo. Aver dato una spazzata a quella macchinazione preparata artatamente è importante». Un po' d'ironia, poi, quando annuncia che chiamerà il procuratore generale di Palermo Nino Gatto «per fargli le condoglianze». Certo, Dell'Utri sa che la vittoria piena, dopo 16 anni di indagini, è ancora lontana, ma si dice fiducioso per il giudizio della Cassazione: «Mi sembra che un giudice normale non possa che dire "ma che cavolo avete fatto finora, in tempo perso e sofferenze date alle persone?"». L'ultimo pensiero è per Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore condannato per mafia e morto in carcere, che ancora oggi, come aveva fatto in passato, definisce un «eroe», il «mio eroe». Frasi che scatenano l'immediata reazione dell'opposizione. Per Veltroni si tratta di parole «di intollerabile gravità». L'Italia dei Valori sottolinea, con Leoluca Orlando, che si tratta di affermazioni vicine alla cultura delle cosche, che «considerano eroe il mafioso che non denuncia i propri complici e accetta il carcere senza coinvolgere gli amici». Irritati anche i «finiani»: «L'unica valutazione politica che va fatta - dice Fabio Granata - è che Mangano non è stato un eroe, ma un mafioso condannato».