Per il pollo di Trilussa le tasse sono più alte
Attenti all’effetto Trilussa. L’aumento della pressione fiscale, segnalato dall’Istat, in sé non dice molto di più della famosa statistica del mezzo pollo a testa. Certo, fa comunque impressione la conferma che, nel 2009, la pressione fiscale complessiva sia cresciuta al 43,2 per cento, ovvero ai livelli del 1997, l’anno del pedaggio dell’eurotassa, passaggio obbligato lungo la strada dell’euro. Ma, rispetto ad allora, conta di più capire se e come le cose sono cambiate. In peggio, si può dire perché allora c’era la speranza che la creazione dell’euro, riducendo la spesa per interessi sul debito pubblico, avrebbe consentito di pilotare più risorse verso investimenti che, a loro volta, avrebbero generato più entrate sul valore aggiunto e/o un minor carico per aziende e buste paga. In realtà, la premessa era giusta: per limitarci al 2009, il basso livello del costo del denaro ha liberato risorse per quasi dieci miliardi di euro. Purtroppo, il circuito virtuoso, si è interrotto lì. Se si va a vedere dentro il pollo di Trilussa in un anno di crisi, si scopre che di fronte alla recessione cala l'importo dell'Ires (-23%), causa i minori profitti delle imprese, e scende l'Irap (-13%), il balzello sull'occupazione che, ahimè, perde colpi nonostante il tampone degli ammortizzatori sociali. Ma, se si guarda al complesso dei contributi sociali versati, si scopre che la diga delle entrate tiene ancora una volta grazie all'apporto delle retribuzioni lorde, dietro cui ci sta il sacrificio fiscale delle imprese e dei lavoratori dipendenti. Già. la pressione fiscale ufficiale del 43,2%, secondo l'effetto Trilussa, sale, per chi paga per davvero tasse e i contributi al 51,4% secondo l'ufficio studi della Confindustria o, addirittura, al 51,6% per il consiglio nazionale dei dottori commercialisti. Insomma, chi evade le imposte, distribuisce a suo vantaggio un tesoro di 120-130 miliardi, l'8 per cento del pil, grazie all'evasione dell'Irpef o dei contributi oppure, più di tutto, raggirando l'Iva. Ovvero, a comprimere l'evasione su livelli più decenti, in linea con quanto avviene presso i cugini europei (che non sono stinchi di santo a leggere le liste degli evasori verso la Svizzera o i paradisi fiscali), la pressione fiscale potrebbe scendere per davvero a quel 43,2% che rappresenta il salasso dei contribuenti francesi. O almeno al 49% dei danesi o al 47,8% degli svedesi, che in cambio godono di un welfare ben più efficiente. Al contrario, gli italiani che rispettano le regole sono di gran lunga i contribuenti più tartassati, grazie soprattutto allo scandalo dell'Iva che rende il 6% circa dell'Iva mentre dovrebbe rappresentare, a rigor di logica, il 9-10 per cento. Ovvero, fatto cento il volume vero, si paga l'Iva solo sul 60-65 per cento mentre il resto non paga. Passa la voglia di indignarsi di fronte a queste cifre. Ma di qui bisogna partire, con pazienza, seguendo il filo d'Arianna della tracciabilità e favorendo, in parallelo, l'emersione del lavoro nero. Senza vani proclami ma con la tenacia che distingue i veri riformatori dai demagoghi. Solo così si può sperare di poter salvare un po' di polpa dai soliti furbi, ancor più famelici di quelli dei tempi di Trilussa.