Hanno smarrito l'idea di grandezza
Una partita di calcio non è "soltanto" una partita di calcio. Almeno nel nostro immaginario culturale. È molto di più. È una passione collettiva, un momento di esaltazione dell'appartenenza nazionale, l'espressione ludica di un sentimento di orgoglio, qualcosa di simile alla simulazione di una competizione che vede popoli contrapposti. Vincere o perdere non è indifferente perché non si tratta semplicemente di un gioco. Perciò, come ha scritto su queste colonne il nostro direttore Mario Sechi, "la dimensione sportiva è dimensione politica", introducendo con questa intelligente considerazione l'inevitabile riflessione sullo stato del Paese, sulla consistenza della società italiana, sul suo oggettivo ripiegamento. Mentre osservavamo increduli lo sbandamento di quegli undici pellegrini, girovaghi su un verde prato africano all'improbabile ricerca di una qualche ragione che ne giustificasse la corsa dietro un pallone, non abbiamo potuto evitarci un supplemento di sofferenza: la decadenza di questa Italia la cui disfatta sportiva è la spia di ambizioni frustrate, di prospettive accantonate, di volontà sepolte sotto cumuli di mediocrità. La nostra Africa non dovevamo certo andarcela a cercare a Johannesburg: ce l'abbiamo in casa e le "gesta" degli azzurri non hanno fatto altro che richiamarla alla nostra mente quando ci illudevamo che un trionfino calcistico avrebbe, almeno per qualche settimana, mandato in soffitta le angosce che ci assediano. Diciamola tutta: al Mondiale abbiamo colto i segni di un declino che è culturale, identitario, sociale e, dunque, anche politico. Possiamo essere pietosi quanto ci pare, ma la realtà è quella che una partita di football, ha evidenziato: l'incapacità di mettere in campo eccellenze, competizione, merito, sacrifici, abnegazione. Sul terreno di gioco l'intelligenza italiana sembra essersi dissolta, non diversamente che altrove. Ma è proprio così? Siamo propensi a credere che al momento si sia appena nascosta, ma per farla venir fuori occorre uno spirito che non è dato scorgere in nessun angolo si frughi. L'Italia che perde il "suo" Mondiale è l'Italia che ha perso da tempo la propria anima perché non crede più a se stessa, non riesce a intravedere un orizzonte su cui far danzare la propria fantasia, si è come spenta nell'asfissiante disputa tra borgognoni ed armagnacchi, per dirla con Paul Valéry, mai immaginando che dietro le loro squallide diatribe c'è un popolo che vorrebbe essere rappresentato meglio e difeso nei suoi interessi legittimi. I modesti operai slovacchi, gli appassionati funamboli ghanesi, gli improbabili frombolieri sudcoreani, i modesti paraguayani e perfino i tutt'altro che blasonati statunitensi ci hanno ricordato che se anche manca la classe non è detto che la sconfitta sia inevitabile. Fuori dallo stadio sperimentiamo che non solo la genialità ci ha abbandonato, ma abbiamo perduto anche lo slancio vitale che in altri momenti ci ha imposto all'ammirazione del mondo. Come nel 1982: timidi e perdenti inizialmente, piegammo Argentina, Brasile, Germania. E fummo campioni del mondo. C'era in quell'Italia, nel campo e fuori, qualcosa che abbiamo smarrito. Un'idea di grandezza, forse?