Non solo una ferita sportiva
Equelli che non l'hanno letto sono invitati a farlo. Impareranno da questo «bracconiere di tipi e personaggi» molto del nostro carattere nazionale e conosceranno un grande scrittore. Germania Ovest, 1974. Sono tempi lontanissimi. Eppure se evoco i nomi di Lato (Polonia), Muller e Beckenbauer (Germania), Neeskens e Cruyff (Olanda), Rivelino (Brasile) e soprattutto di Rivera, Capello e Valcareggi (l'allenatore dell'Italia) qualcosa si accende nella memoria, pulsa ancora una ferita. Anche allora c'è un allenatore che non ascolta i consigli e non tiene conto del campionato, anche allora ci sono giocatori logori, gli stessi della disfatta del mondiale del 1966, anche allora i conti in campo non tornano. E poi c'è un bomber, il capocannoniere e campione d'Italia, il laziale Giorgio Chinaglia, che manda a quel Paese il ct Valcareggi dopo esser stato sostituito nella partita con Haiti. Quel gesto passerà alla storia. Alla storia purtroppo passeranno anche i protagonisti della spedizione in Sudafrica. Inutile dire che tutto questo ci dispiace. Ma ripeto: siamo usciti meritatamente dal mondiale. E questa sconfitta - proprio perché pensiamo che il calcio sia una cosa seria - deve invitarci a riflettere sullo stato della nostra nazione, sull'Italia e gli italiani. La Francia vive come una disfatta la defenestrazione dei «Bleus» dal mondiale e il nostro Paese farà altrettanto. Al di là delle differenze e della rivalità calcistica tra Roma e Parigi, l'uscita delle rispettive nazionali è il sintomo comune di un declino del carattere e dell'identità, della forza stessa di una nazione. Il calcio è geopolitica allo stato puro, espressione della potenza e della vitalità di un Paese. La dimensione sportiva è dimensione politica. Nelle manifestazioni globali - i mondiali di calcio, le olimpiadi - questo aspetto salta fuori dal cilindro delle competizioni come un fuoco d'artificio nel buio. Vedere l'Italia ultima in classifica nel suo girone - modestissimo - faticare con una squadretta di fabbri come la Nuova Zelanda e far apparire la Slovacchia come una formazione di fuoriclasse è un brutto segno. Il solo Paraguay è una squadra di calcio degna di questo nome e probabilmente farà strada. Vedremo presto se tutto questo sarà un segno del declino dell'Europa rispetto al resto del mondo. Ma i dati nudi e crudi ci dicono che il Vecchio Continente soffre parecchio e l'Italia, detentrice del titolo, da sempre considerata Bengodi del calcio, ha molto su cui riflettere. Durante le riunioni di redazione con i miei colleghi de Il Tempo abbiamo affrontato tutti questi temi e - al di là delle interpretazioni puramente tecniche nelle quali tutti sono più bravi del sottoscritto - l'elemento di riflessione comune era che il genio italiano sembrava scomparso dal campo. Ci sono indubbiamente scelte tecniche sbagliate (e Lippi è stato tradito dalla sua presunzione), ma non bisogna tacere che una nazionale è tale se ha dietro una nazione. E se guardiamo al dibattito pubblico del Paese, ai suoi limiti, alle sue iperboli sconsiderate, alle divisioni, al suo avvilupparsi su stesso, ci rendiamo conto che la questione è ben più profonda rispetto a uno stop di petto e un tiro di controbalzo. Siamo fuori. Siamo ultimi. Tutto cambia e rispetto all'Italia narrata dal Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo non è affatto certo che poi tutto resti come prima. Mario Sechi