Beha e quello «strano» pareggio ai Mondiali dell'82

UmbertoBossi lo evoca per provocazione alla vigilia di una partita decisiva per le sorti della squadra allenata da Marcello Lippi. Non fu così nel 1982, o meglio nel 1984. A quei tempi furono due giornalisti, Oliviero Beha e Roberto Chiodi, a mettere in dubbio la vittoria della nostra Nazionale ai Mondiali di due anni prima. Nel mirino una partita: Italia-Camerun. Gli azzurri erano reduci da due 0-0 e, senza il punto con i leoni d'Africa, sarebbero tornati a casa dopo il girone di qualificazione. Finì 1-1 (al gol di Ciccio Graziani replicò Grégoire M'Bida). Tutto accadde in un minuto tra il sessantesimo e il sessantunesimo e l'Italia di Bearzot cominciò da lì, da Vigo, la cavalcata verso la finale con la Germania e il titolo. Beha e Chiodi andarono in Camerun dove raccolsero testimonianze che, secondo loro, confermavano che il risultato di quella partita fu truccato. «Il Camerun vendette il pareggio - disse Beha intervistato nel 2006 dalla Gazzetta dello Sport -. A loro importava solo di tornare imbattuti. E così fu». Secondo il giornalista «alcuni giocatori del Camerun e il loro c.t. Jean Vincent presero 30 milioni di lire ciascuno». Insomma gli italiani, almeno i giocatori, non fecero nulla. Secondo Beha «erano coinvolti soltanto i dirigenti». E la camorra. «Perché il presidente della Federcalcio Federico Sordillo - prosegue Beha parlando con la Gazzetta -, e ho le prove per dimostrarlo, ottenne l'appoggio concreto di Michele Zazza, uno dei più importanti capocamorristi dell'epoca. Che tra l'altro, quando mi incontrò, riuscì anche a ironizzare sul fatto che quella Coppa era anche merito suo». Con le testimonianze raccolte in Camerun i due giornalisti realizzarono un documentario che non è mai andato in onda e anche il libro che scrissero, Mundialgate, non ebbe molta fortuna. «Vennero stampate solo alcune copie che girarono in ambito giornalistico» racconta Beha che nel 2005 ha pubblicato l'inchiesta in un volume intitolato Trilogia della censura. Di quegli anni resta una telefonata che Eugenio Scalfari, al tempo direttore di Repubblica, fece a Beha quando ricevette l'inchiesta. È lui stesso a raccontarla: «Mi diceva "non la pubblico per motivi che ti spiegherò a voce"». Da quel momento in poi cominciò il «periodo nero» del giornalista: lo spostamento dallo sport alla cronaca, la causa vinta nei confronti del quotidiano, la transazione economica e l'obbligo per Scalfari di scrivere su Repubblica che il divorzio era consensuale e che Beha «aveva svolto splendidamente rispettando la deontologia professionale».