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Spatuzza vittima dei magistrati

Un momento della videoconferenza presso la Corte d'appello del Tribunale di Palermo per il processo Dell'Utri

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Discutendo pubblicamente di un siciliano criminale, Gaspare Spatuzza, l'Italia rende involontario omaggio ad un grande siciliano Luigi Pirandello, mettendone in scena uno dei suoi ribaltamenti della verità. Con assai meno fascino, però, e sicuramente in modo rozzo, perché 'u tignusu è un animale assassino, ma non il cretino che certuni vorrebbero far credere. È stato arrestato nel 1997 e se ne è stato zitto, per nove anni, in un carcere di massima sicurezza, seppellito nel cemento, ma ancora in grado di comunicare. Dice di avere avuto una crisi mistica, lui che aveva ammazzato don Puglisi, che aveva strangolato e sciolto nell'acido un ragazzino, che per i fratelli Graviano aveva ammazzato decine di volte. Non m'intendo di mistica, ma mi permetto di non crederci. Sta di fatto che, nell'estate del 2008, inizia a collaborare. Non parte compiacendo i procuratori che lo interrogano, come fanno molti, ma trafiggendoli con i riscontrati racconti sull'omicidio di Paolo Borsellino. Così un intero processo, passato in tre gradi di giudizio e la cui sentenza è divenuta definitiva, non solo deve essere ribaltato, ma inquirenti e giudicanti ci fanno la figura, a dir poco, dei superficiali. Lui, Spatuzza, rubò o preparò la macchina che esplose, mentre, fino a quel momento, la giustizia aveva creduto ad un soggetto più assurdo che improbabile, spiantato, drogato, frequentatore di transessuali (la "sdillabbrata", la sua preferita) e, con tutte queste belle caratteristiche d'affidabilità, raccontò di avere preso parte a vertici mafiosi. Una boiata cubica, che al processo s'era rimangiato.   Eppure la giustizia s'era bevuta tutto. Spatuzza, dunque, era credibile. Un collaborante prezioso, anche se scomodo, visto che distruggeva il lavoro di diverse procure. Il colpo di scena arriva nel dicembre del 2009, quando la procura di Palermo lo porta nell'aula del processo a Marcello Dell'Utri e lo fa parlare, in mondovisione, e qui Spatuzza afferma che l'imputato Dell'Utri era il tramite fra la mafia, nelle persone dei Graviano, e Berlusconi, che fra i due gruppi c'era stata una trattativa, relativa alla liberazione dei due fratelli, i quali, in cambio, organizzarono le stragi, volute da Berlusconi. Racconto immediatamente incenerito dai Graviano stessi. Il più influente, il capo, aggiunge un particolare: perché mai avrei dovuto trattare la mia liberazione, visto che avevo da scontare poche settimane e nessun altro procedimento pendente? Già, perché? Ma la domanda vera è: perché Spatuzza si produce in quello spettacolo? A chi glielo domanda egli dice di non avere rivelato prima quelle cose, incorrendo nella violazione della legge che impone di dire tutto entro i primi sei mesi di collaborazione, perché aveva paura, visto che Berlusconi era diventato capo del governo. Peccato che, quando si decide a rivelare, il presunto mandante delle stragi è ancora capo del governo. Perché, allora, se le sue non sono parole in libertà, la paura gli è passata? E perché continua a genuflettersi ai suoi padrini, i Graviano, che gli fanno fare la figura della testa di minchia? In attesa delle risposte, arriva la decisione della commissione del Viminale, che gli nega la protezione speciale, dedicata ai pentiti. E qui parte lo scandalo pirandelliano: hanno voluto punirlo perché ha parlato, perché ha detto cose indicibili. No, calma, rimettiamo in fila i fatti. Lo status di pentito gli fu riconosciuto proprio in coincidenza con le dichiarazioni su Dell'Utri, quindi, se proprio si vuole vedere un rapporto di causa effetto, questo funziona all'esatto contrario: fu un premio. La protezione, del resto, si riferisce a quelli che possono essere liberati, giacché standosene in un carcere di massima sicurezza di rischi se ne corrono pochi. Quindi, chi mena scandalo, evidentemente, aveva messo nel conto un premio maggiore: la liberazione (che questi disonorati ottengono trattando con i magistrati, ai quali raccontano che per averla trattarono con i politici). Il diniego della protezione speciale, del resto, non inficia minimamente la credibilità e utilizzabilità del collaborante, sicché le cose che ha detto valgono tanto quanto prima. Tutta questa polemica, all'immediata vigilia della sentenza su Dell'Utri, non porta bene all'imputato, che non si agevola della pretesa punizione di chi ha già parlato, ma, semmai, sconta il danno della buriana su chi si appresta a parlare, i suoi giudici, se non daranno ragione all'accusa. E, semmai, c'è da chiedersi il perché furono i procuratori a bruciare un collaboratore di sicura credibilità, esponendolo ad una deposizione non solo priva di qualsiasi riscontro, ma illogica da cima a fondo.   Sicché, concludendo, i responsabili di quel che è accaduto si trovano proprio in procura e non al ministero dell'Interno, sul quale ricade l'irrituale responsabilità di avere applicato la legge. La nostra realtà, insomma, è come l'umorismo di cui parlava Pirandello: «Erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta».  

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