Zaia se ne va mentre suona l'inno
Ci risiamo. Ancora una volta protagonista la Lega, ancora una volta c’è il tentativo di minare i simboli dell’Italia. Di quel Paese che 150 anni fa ritrovò la sua unità. Un successo voluto da eroi celebrati, da tanti dimenticati, da governanti illuminati. Quasi tutti, ricordiamolo, nati a Nord del Po. Ma tutti avevano un sogno: superare le divisioni per far contare questo Paese. «Divisi e derisi» così erano gli italiani incapaci di opporsi allo strapotere di altre nazioni. Retorica? Certo, se restiamo alle cerimonie, alle celebrazioni. Ma se andiamo al fondo delle questioni no. Preoccupa l'accelerazione delle spinte secessioniste che c'è stata in queste ultime settimane, proprio in coincidenza con l'anniversario dell'unità. Hanno cominciato i leghisti con l'ostacolare lo stanziamento di fondi per le cerimonie. Poi è stato un crescendo. Il giovane Bossi che esulta al torneo dopolavoristico che vede in campo la Padania e che non se la sente di dire che tiferà Italia ai mondiali di calcio. Poi ci si mette provocatoriamente l'europarlamentare Salvini convinto che i leghisti vedano di buon occhio la Svizzera, non gli azzurri di Lippi, forse perché il capitano è il partenopeo Cannavaro. Folklore? I leghisti snobbano ostentatamente le festa del 2 giugno. A Varese, presente Maroni, ministro di questa Repubblica, non si suona l'inno di Mameli, ma una canzone di Gino Paoli. Per finire, ieri è arrivato l'incidente del presidente della regione Veneto, Zaia, accusato di aver oscurato Mameli per dare la preferenza al «Va' Pensiero» di Verdi. Zaia ha smentito. Ha precisato. Altri governatori leghisti come Cota sono subito andati in suo soccorso. Malinteso, polemiche strumentali e via così. Peccato che tutto questo accada solo a loro. E non è un caso. Perché ancora giocano sull'equivoco tra federalismo e secessione. Perché se urlare Roma Ladrona può servire a raccattare voti in qualche osteria di provincia non può esser lo slogan di chi governa il Paese. Federalismo e secessione sono due concezioni opposte. I primi federalisti, almeno come idea, li troviamo proprio tra chi cercava di unire il Paese. Possiamo risalire a Gioberti e alla sua idea di confederazione. Oppure a Mario Minghetti che per primo cercò di elaborare un'idea di decentramento. Ma stiamo parlando di uomini che il Paese volevano unirlo, non dividerlo. Pensate all'ingiuria a Verdi tirato in ballo così inopportunamente, contrapponendolo a quello che è un simbolo dell'Italia. Ricordano i leghisti che quel "viva Verdi" gridato dai patrioti risorgimentali era un modo per dire viva Vittorio Emanuele Re d'Italia? Far passare Verdi come un antenato della Lega è un'offesa alla storia e all'uomo. A nessuno venga in mente di ricordare che anche Craxi preferiva il coro del Nabucco. La sua era una scelta musicale, non certo di contrapposizione. Craxi non amava la Lega e non dimentichiamo le sue preoccupazioni all'affacciarsi della crisi in Jugoslavia. Il timore che anche da noi qualcuno tentasse di dividere il Paese. Tanto per la cronaca, ricordiamo ai leghisti che l'unità l'hanno realizzata i torinesi Cavour e i Savoia. Garibaldi era nato a Nizza. Mameli non era di Trapani, ma di Genova. Vogliamo parlare della rivolta di Milano contro gli austriaci? Rinfreschiamo la memoria a Zaia sul contributo dato dai veneti per questo Paese. Tutto il Paese. Sarebbe ora di dire basta. Anche per rispetto di quegli uomini nati al Nord che per questo tricolore e questo Inno hanno dato la vita.