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Silvio l'africano

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SIlvio Berlusconi

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E venne il giorno di «Silvio l'africano». Dopo il «Berlusconissimo» di ieri, Il Tempo continua a raccontare attraverso titoli, immagini e articoli, il ritorno in grande stile del Cav. Che cosa è successo in questi giorni? Niente di trascendentale, solo che il presidente del Consiglio ha deciso di lasciare a terra un po' di zavorra, chiudere il sipario del teatrino nazionale e tornare a fare quello che sa fare meglio: Berlusconi. Con grande sorpresa i commentatori che davano Silvio per spacciato, morto e sepolto dalla montagna di carte della Finanziaria, sforacchiato dalle inchieste, con il morale sotto i tacchi per la pochezza di alcuni dirigenti del Pdl, hanno dovuto riprendere in mano il taccuino e aggiornare a data da destinarsi i loro necrologi. Purtroppo per loro Berlusconi è insostituibile e ogni volta che decide di giocare la palla appare un gigante tra i nani della politica. Si sono sprecati fiumi di inchiostro sulla sua politica estera, ovviamente per dire che era spazzatura, la famosa politica del cucù, la famigerata politica della pacca sulla spalla. Balle. Ieri Berlusconi ha dato il contributo decisivo per la liberazione di un cittadino svizzero che il colonnello Gheddafi s'era tenuto come pegno, in vista di una soluzione soddisfacente della crisi con i Quattro Cantoni. È toccato ai libici stavolta dire «meno male che Silvio c'è» e in fondo lo pensano anche quelle sagome degli svizzeri che saranno pure bravi a mettere i soldi nel caveau, ma in quanto a diplomazia stanno a zero. Senza Silvio l'africano gli eredi di Guglielmo Tell starebbero ancora con le mele e le frecce in mano, mentre il colonnello se la spassa nella sua tenda nel deserto. Alla fine sono scesi a patti.   Con la Libia non si scherza. Primo perché il colonnello Gheddafi ha un caratteraccio, secondo perché il suo Paese oggi è un produttore di energia e ha un fondo sovrano di investimento piuttosto attivo in Occidente. Il Libyan Investment Authority è stato fondato nell'agosto del 2006 per gestire i ricavi del petrolio. È una holding che gestisce proprietà in Libia e all'estero. Tra i fondi sovrani è posizionato benissimo, meglio di Singapore e della Cina. A parte lo storico investimento nel capitale della Fiat, la Libia in Italia conta interessi importanti nella finanza (è nell'azionariato di Unicredit Banca), ha appena siglato accordi importanti con Finmeccanica, e attraverso l'Eni, costituisce uno dei Paesi chiave della nostra politica estera. Certo, Gheddafi non è un democratico, ma qui bisogna una volta per tutte mettersi d'accordo: o gli affari si fanno solo con chi accetta la democrazia oppure si decide in base al principio della realpolitik. Berlusconi e con lui gran parte dell'Occidente ha adottato questo criterio nell'interesse dell'Italia. Il fatto che gli svizzeri - noti per gli orologi, le banche, il cioccolato e la loro superbia - siano scesi a più miti consigli la dice lunga sulla Libia e sugli assetti strategici nel nord del Mediterraneo. Il problema non è il figlio del colonnello, Hannibal, ma il controllo di un'area geopolitica fondamentale per il prossimo futuro.   Non a caso la Cina sta investendo miliardi di dollari in Africa e gli Stati Uniti hanno deciso di rilanciare la loro politica di cooperazione e sviluppo nell'area. Il continente dimenticato, in un mondo che si fa sempre più stretto e affollato, diventerà molto presto la scacchiera dove le grandi potenze si contenderanno il primato. In fondo la storia anche in questo caso ama ripetersi. Fu così anche nell'epoca coloniale, quando gli imperi decisero di allargare i loro confini. Fu una delle tappe della globalizzazione. Gli effetti sono quelli di una società connessa che ha le sue aree di crisi e di guerra dove è disconnessa. Quest'ultimo è un concetto sviluppato da un pensatore strategico di nome Thomas P.M. Barnett che in un libro intitolato «La nuova mappa del Pentagono» spiega come siano le società disconnesse (dalle relazioni internazionali, dall'economia, dalla rete) a creare focolai di crisi pericolosi per la stabilità mondiale. Pensateci bene, per lungo tempo anche la Libia è stato un Paese disconnesso, fuori dal network internazionale, isolato e, purtroppo, terrorista. Poi il colonnello Gheddafi ha rinunciato al suo programma di armamenti chimici, biologici e di distruzione di massa e ha imboccato una via diversa dove è vero che non esiste la democrazia, ma la Libia da minaccia è diventata fattore di stabilità nell'area. Per questo penso che il realismo della politica estera berlusconiana sia stato il capolavoro dell'era del Cav al governo. In particolare, le relazioni con la Russia di Putin e con la Libia di Gheddafi, al di là degli sguardi ogni tanto accigliati di Washington, hanno contribuito a tirar fuori quei due Paesi dal buco nero dell'isolamento per il primo e del terrore per il secondo. È vero, non stiamo parlando di un mondo perfetto, ma con l'idealismo non si va lontano e con l'utopia la storia c'insegna che si costruiscono società dove tutti sono talmente uguali da finire nei campi di concentramento e nei gulag.  

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