Riforma vuol dire rivoluzione
«Le crisi non finiranno» è il titolo del recente libro di Roubini e Smith, cioè dei due economisti che avevano previsto la crisi finanziaria globale del 2008. Le crisi ci sono sempre state nella storia del capitalismo e ci saranno anche in futuro. Solo che la crisi del 2008 e poi la recente crisi della Grecia con le sue gravi ripercussioni su tutti i Paesi dell’Eurozona sono la vistosa manifestazione di quella grande trasformazione che è avvenuta negli ultimi vent’anni e che comunemente va sotto il nome di globalizzazione. La grande trasformazione dell'economia e della società che stiamo vivendo esprimono il grande bisogno di un governo politico di tali cambiamenti, senza il quale le nostre società rischiano di sgretolarsi di fronte agli attacchi del capitale finanziario globale ai debiti sovrani, alle ripercussioni sociali della concorrenza delle nuove potenze economiche orientali alla catastrofe ambientale, ai flussi migratori dei disperati del Sud del mondo, all'insopportabile dipendenza energetica di gran parte dei Paesi occidentali nei confronti dei Paesi Arabi. Del resto, proprio la reazione degli Stati, ed in primo luogo degli Stati Uniti, di fronte alla crisi globale e poi degli Stati europei di fronte alle speculazioni contro l'euro, attestano la fine di un'epoca – quella del mito mercatista e della politica minimalista – e l'ingresso in una nuova fase in cui ritorna imperioso il bisogno di governo, la necessità di una politica autorevole, capace di contrastare le tendenze spontanee e gli «spiriti animali» del mercato. Certamente si tratta di un nuovo modo di governare perché la deteritorializzazione dell'economia riorganizza i livelli istituzionale, imponendo la ricerca di strumenti di governo sovrastatale – tanti dicono che la crisi dell'Eurozona sia dovuta all'asimmetria tra la gestione europea della moneta e la permanenza di una politica fiscale e di bilancio di livello esclusivamente statale – ma anche di un robusto livello regionale perché nell'economia globale la competizione avviene soprattutto tra aree territoriali e richiede perciò politiche adeguate alle specificità locali. Siamo entrati in una fase storica necessariamente costituente. C'è una cesura rispetto al passato dibattito sulle riforme istituzionali. Non si tratta più di ridefinire gli equilibri tra le diverse componenti della classe politica nazionale, ma siamo di fronte ad un grandioso processo storico che ridisegni gli equilibri mondiali, i rapporti tra i Paesi europei, i rapporti dello Stato con l'economia e la società, le relazioni tra aree geografiche, gli equilibri sociali. La Costituzione materiale della comunità internazionale, quella europea e quelle nazionali stanno già cambiando. In questo quadro si aprono nuovi spazi per il riformismo istituzionale. Non si tratta di mitizzare le riforme, ma è pur vero che le regole e le istituzioni contano nella ridefinizione dei nuovi equilibri. La grande trasformazione può essere subìta, oppure si può cercare di governarla, creando, attraverso regole e istituzioni adeguate, un sistema di incentivi e di disincentivi per i diversi attori coinvolti in modo tale da ridurne i costi e massimizzarne i vantaggi, e di mantenere la coesione sociale e di salvaguardare gli interessi del «sistema Italia». Pertanto si intrecciano e si condizionano reciprocamente i diversi livelli territoriali – internazionale, europeo, statale, regionale – in cui si esprime il governo nell'età globale. Questo processo di cambiamento che c'è nel mondo ed in Europa potrà, forse, fare uscire il dibattito italiano sulle riforme dall'inconcludenza che fin qui lo ha caratterizzato. Ma a quel punto bisognerà guardare in faccia i problemi veri, superando la vuota retorica delle riforme, per cercare di capire cosa impedisce al Presidente Berlusconi di governare – come lui stesso ha, anche recentemente, dichiarato – nonostante goda di un'ampia maggioranza parlamentare.