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Caro Direttore la nostra legge difende i cittadini

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Caro Sechi, nei giorni in cui la Commissione Giustizia del Senato discuteva la legge sulle intercettazioni, lei, assieme ai direttori delle altre testate giornalistiche, prendeva apertamente posizione contro la riforma. In particolare, si contestava l'ipotesi di porre un freno alla pubblicazione indiscriminata di atti d'indagine rafforzando la previsione delle sanzioni rispetto a un illecito che il codice vigente già punisce, ma senza alcuna efficacia vista la scarsa entità della pena prevista e dunque il suo inesistente impatto deterrente. Come i suoi lettori sapranno, il disegno di legge ha subìto ulteriori modifiche prima dell'approvazione in Senato. Ma il punto è un altro. E l'attenzione che in questi giorni lei ha scelto di dedicare a ciò che è accaduto a Trani dimostra che la consapevolezza delle patologie verso le quali è scivolato il sistema mediatico-giudiziario nel nostro Paese, al dunque, è più forte di qualsiasi rivendicazione di categoria e di qualsiasi allarme - infondato - sulle presunte minacce alla libertà di stampa. Una libertà che nessuno ha mai messo in discussione, eppure per la cui difesa - da cosa non è dato capire - abbiamo visto giornali uscire in edicola con le prime pagine bianche; il sindacato unico dei giornalisti proclamare uno sciopero all'esito di roboanti proclami; il cosiddetto "popolo viola", emblema plastico del più sfrenato giustizialismo, scendere in piazza e trasformarsi poco credibilmente in sedicente difensore della libertà. Non entrerò nel merito degli accertamenti che la Procura di Bari sta conducendo su ciò che è accaduto a Trani. Ma credo che al di là degli aspetti penali, sui quali saranno i magistrati a cimentarsi, un giudizio politico sulla vicenda possa essere formulato. Non c'è infatti bisogno di una sentenza per affermare che una democrazia nella quale si legga sui giornali cosa dicono il premier, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il comandante generale dell'Arma, il direttore del primo telegiornale del Paese (i numi tutelari della libertà di stampa non hanno nulla da dire in proposito?), in conversazioni intercettate e trascritte nell'ambito di un'inchiesta sulle carte di credito, è afflitta da una grave patologia. Soprattutto, non è più un Paese libero quello in cui vengono trascritte e divulgate le telefonate in cui un cittadino parla del proprio divorzio. Il fatto che questo cittadino sia il presidente del Consiglio non ha alcuna importanza. Perché l'assuefazione all'abuso sistematico che tutto giustifica e tutto travolge in nome di una presunta libertà, che non è altro che una nuova strisciante oppressione, non può indurci a dimenticare che nella nostra Costituzione non c'è soltanto l'articolo 21, che nessuno ha inteso mettere in discussione. C'è un diritto inviolabile alla vita privata che è scolpito nella pietra dei principi che i Padri costituenti così spesso scomodati hanno posto a fondamento della nostra nazione. Questo diritto inviolabile è sancito nell'articolo 15. "Viene prima l'articolo 15", recita lo slogan di una mobilitazione culturale prima ancora che politica che nelle prossime settimane ci vedrà impegnati a difendere quella libertà fondamentale alla riservatezza che a sua difesa non può vantare nessuna corporazione: non quella dei magistrati, non quella dei giornalisti. E in nome di questa battaglia di civiltà, che non pregiudica né l'informazione né le indagini, sarebbe un bel segnale se proprio i direttori che come lei non sono insensibili al tema dell'abuso qualitativo e quantitativo che delle intercettazioni è stato fatto - l'attenzione del suo giornale al caso Trani lo dimostra - decidessero di rompere quel fronte che una foto pubblicata su queste colonne, che la ritrae accanto a un altro direttore che della libertà e della democrazia ha un'idea ben diversa, aveva ben esemplificato.

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