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Berlusconi aveva capito la Lega e Fini già nel '94

Umberto Bossi, Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi

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Mi permetto di aggiungere un ricordo personale, spero utile, all'ampia e onesta ricostruzione della vicenda politica di Silvio Berlusconi offerta in questi giorni ai lettori de Il Tempo dal direttore Mario Sechi, giustamente convinto dei meriti del Cavaliere e della permanente validità della sua leadership. Nei primi giorni di dicembre del 1993, quando era fortemente tentato ma non ancora deciso a mettersi in politica, sconsigliato peraltro da amici come Fedele Confalonieri e Gianni Letta nel timore di gravi complicazioni per le sue aziende, Berlusconi ebbe la cortesia di consultarmi. Mi chiese, in particolare, «con chi» gli consigliassi di allearsi. Con la Destra nel centro-sud e con la Lega al nord, come poi avrebbe fatto, o con Mino Martinazzoli, che mi risultava gli avesse offerto una candidatura da indipendente al Senato nelle liste democristiane, come era già accaduto in passato a Cesare Merzagora e a Umberto Agnelli? Gli consigliai senza alcuna incertezza Martinazzoli, ritenendo che insieme essi avrebbero potuto tenere ben saldo al centro il Ppi, come stava per chiamarsi la vecchia Dc. «Ma quelli non ce la fanno a rimanere al centro», mi rispose Berlusconi. Non ne rimasi convinto. E pensai di trovare conforto proprio nel risultato elettorale che dopo quattro mesi gli avrebbe pur permesso l'arrivo a Palazzo Chigi. Il Ppi- ex Dc di Martinazzoli corse da solo al centro nelle elezioni del 1994. E avrebbe potuto vincere, a conti fatti, contro la «gioiosa macchina da guerra» allestita dal Pds-ex Pci di Achille Occhetto se avesse potuto disporre anche dei voti raccolti dal partito appena fondato da Berlusconi. In quel caso sarebbero rimaste all'opposizione, oltre ai comunisti, una destra che mi sembrava ancora tinta di nero e una Lega che a me, peraltro meridionale, puzzava di becero antimeridionalismo. I miei dubbi sulla solidità della pur innegabile vittoria elettorale di Berlusconi, alla quale avevo concorso come elettore solo per stima e amicizia personali, crebbero nelle settimane e nei mesi successivi. Crebbero, in particolare, quando Fini indicò in Mussolini «il più grande statista del secolo» mandando comprensibilmente di traverso più di un pranzo al neo-presidente del Consiglio di centrodestra. E ancora quando la Lega, sostanzialmente intimidita dalle solite e minacciose proteste giustizialiste della Procura di Milano, costrinse il governo a sotterrare un decreto legge appena varato, e firmato anche dal suo ministro dell'Interno Roberto Maroni, che limitava il ricorso alla carcerazione preventiva, prima del processo, visto l'abuso che si era fatto delle manette nelle indagini «Mani pulite». Ma la Lega non si limitò a quella sciagurata dissociazione. Dopo qualche mese, mentre nella Procura ambrosiana si allestiva il primo di una lunga serie di procedimenti contro Berlusconi, i leghisti provocarono la crisi, incoraggiati da un presidente della Repubblica deciso a non concedere al Cavaliere, che invece le reclamava, le elezioni immediatamente anticipate. Seguirono il governo di Lamberto Dini, il «ribaltone» e la lunga preparazione delle elezioni, anticipate sì ma indette solo quando la sinistra si sentì in grado di affrontarle e vincerle, come avvenne nel 1996 con Romano Prodi alla testa della coalizione dell'Ulivo. Vi confesso che ebbi la tentazione ad un certo punto di chiamare Berlusconi e di chiedergli: «Non avevo ragione io?». Me ne mancò la sfrontatezza, per fortuna, visto che i fatti erano destinati alla fine, nonostante i cinque anni di opposizione comminatigli dal 1995 al 2001, a dare ragione non a me ma proprio a lui. Che aveva visto giusto sull'incapacità del Ppi-ex Dc di Martinazzoli di rimanere al centro.   I post-democristiani infatti corsero sotto l'Ulivo per finire oggi minoranza, sotto certi aspetti persino la più radicale, di quella riedizione del Pci che si chiama Pd, guidato non a caso prima da Walter Veltroni e poi da Pier Luigi Bersani con il breve e inconsistente intermezzo dell'ex dc Dario Franceschini. Berlusconi aveva visto giusto anche sulla capacità della destra post-fascista di diventare una cosa davvero diversa, per quanto Fini possa o voglia rovinargli adesso le giornate inseguendo, come cofondatore del Pdl, chissà quale elettorato o traguardo politico. Egli aveva visto giusto infine sulla Lega, riuscendo a recuperarla all'alleanza con lui e al governo dopo che il corteggiamento della sinistra, arrivata con Massimo D'Alema a definirla una sua «costola», l'aveva incoraggiata ad attestarsi su posizioni di sfacciato secessionismo. Non vorrei che si dimenticasse, a questo proposito, che nella legislatura del primo Ulivo, quando si alternarono fra il 1996 e il 2001 un governo di Prodi, due di D'Alema e uno di Amato, i presidenti delle Camere permisero ai gruppi parlamentari del Carroccio di chiamarsi, su tanto di carta regolarmente intestata, «Lega Nord per l'indipendenza della Padania». Con Berlusconi non avrebbero potuto neppure tentarci.

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