Ora Israele è sotto tiro
Israele vive una grande crisi di leadership. È dall'uscita di Ariel Sharon dalla scena che il Paese non riesce a trovare una guida carismatica, forte e nello stesso tempo saggia. Israele vive in un perenne stato di guerra, è minacciato a Nord, a Sud e a Est da nemici potenti e spesso invisibili. Solo il mare lo mette al riparo dai nemici che lo osservano da Ovest. Per questo è sempre stato guidato da un generale, un uomo che conosce il mestiere delle armi. Sharon aveva sviluppato una sua maturità politica, una linea chiara e un'intuizione, il nuovo partito di Kadima, che avrebbe dovuto traghettare lo Stato israeliano verso un'altra era. Il destino ha interrotto quel viaggio e la strage della Freedom Fleet è un altro tassello di questo mosaico incompiuto. I soldati israeliani hanno fallito un'altra operazione militare e non possiamo fare a meno di notare che si tratta di un dato ormai stabile della sua storia recente. Prima l'invasione in Libano e poi l'operazione "Piombo fuso" a Gaza avevano messo in evidenza i limiti dell'esercito, della sua intelligence e della leadership. Senza un obiettivo politico chiaro, le missioni militari sono sempre destinate a diventare un fiasco. Durante l'invasione del Sud del Libano nel 2006 il mito dell'invincibilità di Tsahal, il nome dell'esercito israeliano, è svanito. Hezbollah durante la campagna militare si era dimostrato un nemico organizzato, in grado di rispondere al fuoco, spostarsi con disciplina sul teatro di guerra e capace di distruggere i tank israeliani con missili anticarro. Un'amara sorpresa. Seguirono polemiche al fulmicotone e un'indagine accurata sull'andamento (disastroso) della guerra. Due anni dopo, Israele decideva di rispondere al lancio di razzi dalla striscia di Gaza con l'operazione «Cast Lead», Piombo Fuso. Ero vicedirettore a Panorama e decisi di seguire la guerra scrivendo sul mio blog un'analisi quotidiana di quanto accadeva. Non mi convinceva e la criticai severamente. Piombo Fuso fallì per una serie di «stop and go» militari e politici senza precedenti. Era un assedio incompiuto perché mancava l'obiettivo politico finale. Oggi Hezbollah è una minaccia più grande di prima e Gaza continua ad essere la spina nel fianco con Hamas che ha approfittato della guerra per regolare i conti (nel sangue) con la fazione avversaria di al Fatah. Non è un gran bel risultato e lo scenario politico incerto venuto fuori dalle ultime elezioni è la cartina di tornasole di questa confusione strategica. Eppure, mai come oggi penso che Israele vada difeso non solo da se stesso, ma anche dai «pacifinti» che dietro la retorica filopalestinese celano il desiderio delle satrapie mediorientali di «buttare Israele a mare». Un anno prima dell'invasione di Gaza, andai a trovare in via Solferino Paolo Mieli, allora direttore del Corriere della Sera. Passammo qualche ora a parlare di politica internazionale. Ne nacque un'intervista su Israele e la sinistra, che considero utile per capire quali siano i rischi che corre oggi l'unica democrazia del Medio Oriente. Mieli fece una cavalcata sui settant'anni di storia israeliana e disse cose che val la pena di ripetere nel momento in cui dalle finestre di Palazzo Wedekind sento parole contro Israele che fanno rabbrividire. Mieli ricorda come dal 1948 al 1967 si parla sempre di guerre arabo-israeliane: «I palestinesi nella disputa politica era come se non esistessero». Nel '67 le radio arabe mandavano in onda una canzone dal gaio ritornello: «Sgozza sgozza sgozza». L'Egitto preparava la guerra d'aggressione. Il generale Moshe Dayan prese gli egiziani in contropiede. Attaccò. Fu la guerra dei sei giorni. «Le immagini dei soldati scalzi che tornavano in Egitto fecero il giro del mondo. Là ci fu la rottura con la sinistra». Da allora, ricorda Mieli, «comincia un'opera di gigantesca rimozione: Israele fu visto come un Paese imperialista, che aveva occupato quei territori per fondare il suo grande Stato, l'avamposto degli Stati Uniti nel Medio Oriente». Questa operazione è ancora in corso, ma Israele con il suo folle blitz ha dato ai suoi nemici un'arma formidabile e temo un contraccolpo più grande di quello che provocò la strage di Sabra e Chatila. Era il 1982. Mieli ricorda due fatti macabri che ci riguardano da vicino. Il primo fu la manifestazione dei sindacati «in cui apparve del tutto normale depositare una bara davanti alla sinagoga di Roma». Il secondo fu quando l'Olp attaccò il Tempio nella Capitale con una bomba che provocò trenta feriti e uccise un bimbo, Stefano Gaj Tachè. Aveva due anni. Vittima di un odio che non si spegne. E ora c'è di nuovo Israele sotto tiro.