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Fronte unito anti-bavaglio

A sinistra il direttore di Repubblica Ezio Mauro, a destra quello de Il Tempo Mario Sechi

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 La retromarcia è annunciata. Così il ddl intercettazioni non va. Il testo da giorni in discussione in Commissione giustizia è riuscito in un'operazione unica nel suo genere: ha messo tutti d'accordo. Dopo l'apertura alle modifiche del ministro Angelino Alfano, autore del provvedimento, e il progressivo ammorbidirsi degli esponenti della maggioranza sulla possibilità di limare il documento - finiani in testa, neanche a dirlo, ma a seguirli addirittura Maurizio Gasparri - sono stati i direttori delle principali testate quotidiane (di destra e di sinistra) a fare fronte comune. Sacrosanto tutelare il diritto alla riservatezza dei cittadini. Altrettanto doveroso fermare il ddl intercettazioni perché con questo non ha nulla a che fare. Questo il messaggio unanime che è venuto fuori dalla manifestazione della Fnsi che ha unito (in videoconferenza da Roma e Milano) i principali organi di informazione del Paese.   «Non ci sono discorsi di destra o di sinistra, è l'idea di punire editori e giornalisti ad essere sbagliata - ha spiegato il direttore de «Il Tempo» Mario Sechi - La nostra è una battaglia di libertà. Siamo costretti a combatterla perché il nostro mestiere è vendere notizie. Le sanzioni pecuniarie previste sono salatissime e potrebbero compromettere gli equilibri nei bilanci. Il ddl è frutto di imperizia e di ignoranza. Si tratta di un provvedimento estremamente punitivo. Il testo sarà aperto a miglioramenti, mi aspetto qualcosa di più. Per ora il mio no è chiarissimo. Farò tutto il possibile per informare i miei lettori». Preoccupato anche il direttore di «Repubblica», Ezio Mauro: «La legge introduce elementi irrazionali e irragionevoli e, di fatto, spinge l'editore nelle redazioni per controllare che quanto si va scrivendo non finisca per penalizzarlo finanziariamente. Faremo di tutto per fare il nostro dovere - ha aggiunto - nessun atto di eroismo: solo il nostro dovere di informare». Netto il direttore de «Il Corriere della Sera», Ferruccio de Bortoli: «Il ddl sulle intercettazioni è pericoloso per la democrazia e non solo per la nostra categoria. Non ha come scopo di scongiurare gli abusi nella pubblicazione dei testi delle intercettazioni, ma esprime un'insofferenza per la libertà di stampa che dovrebbe preoccupare tutti».   Vede nel ddl «un'ingenuità paradossale» il direttore de «Il Giornale» Vittorio Feltri, secondo cui quanto sarà vietato in Italia troverà pubblicazione sui siti stranieri (Reporters sans frontieres ha già proposto questa possibilità qualora il provvedimento dovesse passare). Polemica Norma Rangeri, direttrice de «Il Manifesto»: «Le intercettazioni sono state il tallone d'Achille di questa maggioranza e si capisce allora la ragione della stretta che si vuole dare e le riunioni notturne». Ad aggiungersi al coro dei giornalisti, anche Stefano Rodotà, giurista ed ex Garante della privacy: «Un'opinione pubblica non informata è carne da sondaggio. L'appellarsi alla tutela della riservatezza è una truffa e i cittadini lo hanno capito. È uno scudo per pochi, per quei potenti che hanno bisogno dell'opacità per proseguire nelle loro azioni criminali». Limitazione del diritto di cronaca, sproporzione tra obiettivo dichiarato (la riservatezza) e strumenti utilizzati (multe e anni di carcere), capovolgimento degli asset decisionali tra editori e redazione. Non è difficile capire cosa ha reso così unito il fronte dei contrari. Forte di tutte queste voci, il Pd ha alzato i toni dello scontro in Commissione. Se prima parlava di ostruzionismo propositivo, dopo la manifestazione della Fnsi ha chiesto il ritiro del testo. A fare la voce grossa anche il presidente Udc Pier Ferdinando Casini che ieri sera a «Otto e mezzo» ha chiesto alla maggioranza di fermarsi: «State facendo un errore enorme - ha detto - Se il Ddl sulle intercettazioni fosse ritirato meglio ancora, ma almeno occorre cambiarlo radicalmente».   I più spingono verso una retromarcia al documento passato alla Camera. Significherebbe prevedere la pubblicazione «per riassunto degli atti dei processi», cancellare i «gravi indizi di reato» necessari ai pm per chiedere ai giudici di mettere un telefono sotto controllo o di consultare i tabulati telefonici, rinunciare alla durata breve delle intercettazioni (dopo 30 giorni, secondo la norma attuale il permesso di ascolto deve essere riconfermato), sacrificare le tutele per agenti segreti, gerarchie ecclesiali e deputati, cestinare la norma D'Addario. Forse troppo, per chi la norma l'ha pensata. Sicuramente troppo poco per tutti gli altri. A cominciare dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che dopo il sì della Camera aveva convocato Angelino Alfano al Quirinale.  

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