Dopo le forbici servono idee e riforme strutturali
Alla fine è toccato a Gianni Letta, il miglior interprete dell’equilibrio, il più saggio gestore del governo quotidiano e concreto, utilizzare il linguaggio della realtà: si sta varando una manovra economica che sarà dura e dolorosa, nella speranza che sia efficace e temporanea. I cittadini lo avevano capito, e la mano tremolante e riottosa di qualche governante non ha lenito il fastidio, lo ha acuito. Delle misure concrete non mette conto parlare, per ora, si potrà farlo domani, quando saranno note. Partecipare alla giostra delle anticipazioni e delle supposizioni non ha alcun senso. Certo, se si escludono nuove tasse (e vorremmo vedere!), così come i condoni (che servono ad aumentare il gettito fiscale senza toccare aliquote e imposizioni), se si esclude d’intervenire sulle pensioni, resta il taglio della spesa pubblica. E qui si tratta di capirsi. Il guaio italiano è che tagli di questo genere si fanno solo quando si è costretti, quando si ha la pistola puntata alla nuca, quando l'Europa non intende accordarci altre deroghe. Si fanno per forza e non per amore, quindi si fanno male. La spesa pubblica andrebbe tagliata perché genera ingiustizia e sprechi, perché non solo toglie ricchezza al sistema produttivo, ma moltiplica vincoli e adempimenti, che sembrano concepiti apposta per rendere più difficile la vita di quanti si danno da fare. Ma il concetto di “spesa pubblica” è troppo generico, finisce con l'essere un dato contabile, mentre, invece, si dovrebbe essere capaci di distinguere: la spesa per ricerca ed investimenti è benedetta, serve proprio ad uscire dalla stagnazione, quando non dalla recessione, mentre nella spesa corrente si nascondono mali antichi, che c'impoveriscono tutti. Quando si taglia per rispettare vincoli di bilancio, quando si procede in fretta e usando più l'ascia che il bisturi, si finisce con il tagliare la spesa buona e lasciare intatta quella cattiva. Questo è il guaio, questo il fallimento politico. In un sistema sano il bilancio è funzione delle riforme, ma non nel senso che si spende a piacimento, senza badare alle compatibilità (come, purtroppo, si è fatto in passato), bensì per mettere la spesa al servizio di un'idea nuova di Paese, di un diverso e più promettente patto sociale, che rispetti le giovani generazioni e dia loro la spinta per aspirare ad un futuro migliore. In un sistema malato, al contrario, sono le riforme ad essere funzione del bilancio, nel senso che in tempi di ristrettezze si rimanda tutto, nell'errato presupposto che il futuro costi troppo. Con il risultato di deprimerlo. Gli italiani hanno ben compreso che ci attende una stagione di sacrifici, ma nessuno ha spiegato loro per arrivare dove, per ottenere cosa. E se si spera che tutto possa essere giustificato solo perché l'Europa a questo ci costringe si otterrà il risultato di far rigettare l'Europa, come oggi avviene in Grecia. Si dice, appunto, che non dobbiamo fare la loro fine, ma i greci sono arrivati dove si trovano non per un complotto dei mercati, ma perché amministrati da una classe politica che ha moltiplicato il clientelismo e l'assistenzialismo, tollerando l'evasione fiscale e diffondendo l'impressione che si possa vivere senza far di conto. Il crollo greco è prima di tutto politico e morale, per divenire solo successivamente contabile. Per non fare quella fine, allora, non basta stringere i cordoni della borsa, come pure è stato necessario e opportuno, si deve essere capaci di presentare idee forti, che liberino le forze produttive e sane, che premino chi studia, chi lavora, chi eccelle, e puniscano le rendite di posizione, i profittatori, i somari e i fannulloni. Servono riforme profonde e strutturali, perché i tagli siano una potatura promettente e non un'amputazione invalidante.