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Il calo delle tasse ce lo scordiamo.

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Però,scusate, non raccontiamoci storielle. Non è corretto dare tutta la colpa alla crisi economica, che, naturalmente, pesa, ma pesano anche quindici anni di sviluppo trattenuto e rallentato, accompagnati da un debito pubblico che assorbe ricchezza pubblica. Se anche non ci fosse stato il tracollo finanziario dei mercati, se anche l'euro non fosse sotto attacco, comunque noi ci troveremmo a reggere il peso del debito, comunque dovremmo comprimerlo, visto che rischia di raggiungere il doppio di quel che i parametri europei impongono. Quindi, non giriamoci attorno, senza riforme strutturali e profonde, che incidano sul modello di welfare state e sulla spesa pubblica, noi siamo condannati a pagare per impoverirci. Con o senza la crisi. I cittadini capiscono che non può scendere la pressione fiscale, non sono stupidi ed hanno più senso della realtà di gran parte della classe politica. Quel che manca, però, e che, invece, dovrebbe esserci, è un progetto di cambiamento, un'idea diversa di futuro, un'immagine credibile, e allettante, dell'Italia fra cinque, dieci o venti anni. Se andiamo avanti così ci teniamo due cose, che lasciamo in eredità ai figli: poca crescita e tanti debiti. Né, per favore, si venga a raccontare la favoletta triste della lotta all'evasione fiscale, ovvero una narrazione inutile che affascina solo i governi, di diverso colore. L'evasione, da noi, raggiunge all'incirca un quarto dell'economia reale. È un fenomeno endemico, per quanto infetto, per combattere il quale occorre determinazione e una forza politica che, se ci fossero, potrebbero utilmente essere impiegate per far funzionare la giustizia, la pubblica amministrazione, la scuola, il mercato del lavoro e quanto altro serve ad un Paese invecchiato e fiaccato. Con questo non intendo certo dire che si debba tollerare l'evasione fiscale, ma che non ci crede nessuno a quel tipo di lotta, se non si cambia, nel profondo, il modo di concepire e governare il mercato, politica fiscale compresa. Si dirà: provvederemo con il federalismo fiscale. Ma, al momento, nessuno sa esattamente cosa sia, quali ne sono i contorni, quali i risultai che si possono ottenere. Dire che il compito di tassare deve passare a chi poi spende, quindi alle regioni, è giusto, ma posto che l'evasione è patologica al Sud, dove l'economia nera raggiunge caratteristiche da extraterritorialità, chi s'incarica di far digerire il suo riassorbimento? Perché, sia chiaro, questa è roba da intervento dell'esercito, mentre, al momento, è proprio dove l'evasione e la criminalità sono più alte che la giustizia, quindi lo Stato, da il peggio di sé. A critiche come queste i governanti, di destra come di sinistra, di oggi come di ieri, rispondono: non è vero, stiamo facendo molte cose e molte altre le abbiamo in cantiere. Ma non basta, ammesso che sia vero, perché quel che manca, da tempo, è un progetto Paese credibile, il racconto pubblico di un avvenire desiderabile e delle tappe necessarie per raggiungerlo. C'è differenza fra il governare e l'amministrare, bene o male che lo si faccia, e la differenza consiste nel creare consenso attorno ad una speranza che non sia una chimera. Gli italiani capiscono, e sanno tirare il carretto, anche in salita. Ma qualcuno deve dir loro cosa c'è in cima alla china, spiegare a cosa serve sudare, perché, altrimenti, diventa forte la tentazione di buttare giù quelli che si trovano a cassetta e pretendono di dare indicazioni. Non serve a nulla, lo sappiamo bene, ma è, almeno, una soddisfazione.

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