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Non è Tangentopoli Ma può esser peggio

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La corruzione, intesa come reato o decadimento dei costumi pubblici, non è una bella cosa, ma, da sola, non conduce alla perdizione un sistema e una classe politica. Perché il baratro s'avvicini occorre che ci sia anche pochezza personale, incapacità di comprendere quel che accade, insensibilità rispetto al turbarsi dei cittadini. E occorre che la diffusione del benessere s'inceppi, che maturi la convinzione, non importa quanto fondata, che gli agi immeritati di pochi siano la causa dei dolori collettivi. Non siamo lontani da una tale miscela velenosa. Quel che preoccupa è la cieca ottusità della classe dirigente. L'approfittare del potere per acquisire vantaggi personali è una bassezza che attraversa la storia, come una costante. In democrazia il potere nasce dalla delega, è la sovranità popolare che consegna nelle mani degli eletti il governo della cosa pubblica, sicché si dovrebbe gestirlo, il potere, in nome e per conto altrui, con riferimento a quel che si ritiene essere l'interesse collettivo. Ciò in teoria. Nella pratica le cose prendono binari diversi. Il potere ammalia, e non c'è statista che non ne abbia subito il fascino, che non abbia ceduto alle sue lusinghe. Non uno. Ma una cosa è gratificarsi del consenso e delle possibilità che questo fornisce, altra intascare quattrini e accettare illeciti regali. Nel secondo caso non si pone neanche il tema degli statisti, trattandosi di profittatori. Da più parti ci si domanda se, per caso, non siamo alla vigilia di una nuova stagione d'inchieste, capaci di demolire il mondo politico, come quelle che travagliarono il biennio 1992-1994, per poi trascinarsi negli anni successivi. La risposta è: sì e no. Sì, perché la giustizia italiana non è in nulla cambiata, semmai peggiorata. Ciò significa che, oggi come allora, quel che conta non sono i verdetti ma le accuse, quel che è pubblico non è il processo, ma i verbali degli interrogatori fatti in cella, o minacciando la cella. Inciviltà allo stato puro. La responsabilità di questo è del corporativismo togato, certo, della resistenza ad ogni forma di cambiamento, ma è, prima di tutto, del legislatore, dello stesso mondo politico: tremulo, ricattabile, spesso intento a risolvere problemi giudiziari particolari e dimentico di quelli generali. Al tempo stesso: no. La storia non si ripete perché sono radicalmente diversi i fenomeni e i contesti. Si può discutere a lungo sulla natura del finanziamento dei partiti, che ha caratterizzato l'intero corso della prima Repubblica. Agli italiani è stata fornita una versione falsa, tendendo a cancellare la realtà della guerra fredda e quella del più grande partito d'opposizione, quello comunista, finanziato da una potenza nemica, con soldi sporchi di sangue. Se ne può discutere, ma una cosa è finanziare la politica altra finanziare se stessi, la propria famiglia, i propri accoliti. Quando il sistema della prima Repubblica cadde, facendo rotolare le teste di quelli cui la storia aveva appena dato ragione, poterono presentarsi delle alternative, proprio perché si era colpita la politica, con un'operazione studiatamente politica. Oggi no, oggi c'è poco di politico in un sistema in cui ci si differenzia a fatica e si compartecipa della spartizione. La conseguenza è più grave, perché la reazione può essere indistinta. In Parlamento, del resto, osano discutere dei loro autisti, cui avrebbero voluto concedere di violare il codice della strada, o si lamentano delle troppe multe che beccano lasciando le macchine sui marciapiedi dei palazzi. Sono matti, fuori dal mondo. Non conoscono e non capiscono quel che succede, non sentono il “popolo delle partite iva”, tanto evocato elettoralmente, che è stato lasciato con le chiappe per terra. Sfugge, insomma, il pessimo combinarsi di problemi economici veri con malanimo e cattiveria sociale. Intanto fioccano le liste, in cui tutto si frulla, e ancora si risente la tesi surreale di chi pretende che la casa gliel'abbiano regalata, a sua insaputa. Attenti, perché l'intestino brontola, e non è una bella premessa.

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