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Fini l'incontentabile se la prende per Bocchino

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Gianfranco Fini

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Bastone e carota. Ormai la strategia di Gianfranco Fini è fin troppo chiara. Un giorno sembra pronto a sottoscrivere la pace con Silvio Berlusconi, il giorno dopo torna ad attaccarlo. Ma a dividere i due non sono quasi mai temi politici rilevanti, piuttosto le solite beghe interne al Pdl. Così, se giovedì aveva taciuto sulle dimissioni irrevocabili presentate da Italo Bocchino e sulle sue esternazioni contro il premier, ieri il presidente della Camera ha detto la sua. E, anche se in forma più "istituzionale", ha ribadito il concetto espresso dall'ex vicecapogruppo vicario del Pdl alla Camera. «Ritengo - ha affermato parlando agli studenti della facoltà di Scienze della comunicazione dell'università dell'Insubria - che sia stato dimissionato senza che ci fosse una ragione e per questo ha la mia solidarietà». Che tradotto dal linguaggio "finiano" significa: è stato epurato dal premier che voleva colpire me e quelli che mi sono vicini.   Lanciata l'accusa, però, Fini ha usato subito la "carota" inviando un messaggio di pacificazione al suo partito affinché vengano stemperati i toni di una polemica che alimenta la divisione. Secondo il presidente della Camera infatti sarebbe sbagliato sostenere che siamo in presenza di una dittatura: «La mia non è apologia della moderazione ma l'invito a non avvelenare di più le coscienze, a non seminare l'odio, e a non indurre chi non ha tutti gli elementi a dar vita ad una stagione che l'Italia ha già vissuto». «Non è possibile evocare il nemico - ha aggiunto -, bisogna parlare dell'avversario. Il nemico lo distruggi o ti distrugge, poi però non c'è la partita successiva. Il nemico è legato alla logica dei totalitarismi mentre l'avversario c'è nelle democrazie». E anche per questo, in "versione pacifica", Fini ha evitato di replicare agli attacchi che gli sono arrivati nei giorni scorsi da Bossi e i suoi: «No non ce l'ho con la Lega». Quindi ha aperto il capitolo riforme. In particolare quella della legge elettorale: «Se vogliamo che ci sia un rapporto elettori-territorio e anche per responsabilizzare l'eletto, al netto di tutto, quello del collegio rimane il metodo più utile». Ultimo tema affrontato quello del rapporto tra informazione e politica. Un tema piuttosto caro al presidente della Camera che negli ultimi giorni è finito nel mirino del Giornale per il contratto che lega sua suocera alla Rai (ieri anche Bocchino è finito in prima pagina per il legame tra sua moglie e la televisione pubblica). «Nonostante tutto - ha affermato con evidente riferimento ai titoli che gli sono stati riservati - preferisco l'informazione politica che c'è oggi». Secondo il numero uno di Montecitorio il giornalismo, scritto e televisivo, rispetta sempre meno le 5 W (why, when, where, who, what) però: «Preferisco leggere il retroscena inventato, il virgolettato immaginato piuttosto delle veline che un tempo venivano passate al giornalista moderato che le leggeva in tv con lo sguardo imbambolato. Per non parlare del pastone e delle tribune politiche che erano una noia mortale». Ma per Fini non si può parlare di una colpa dell'informazione. «È anche la politica - ha spiegato - che deve cambiare. Quando l'informazione si renderà conto che il modo di fare politica è cambiato ne prenderà atto e non darà più spazio a un certo modo di fare giornalismo». La sua è stata una lezione di giornalismo e l'ammonimento ai giovani è stato chiaro: «Ricordatevi che la penna e il microfono sono come una spada. Possono difendere l'inerme dall'arroganza del potere ma anche offendere l'inerme senza neppure rendersene conto».

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