Fini, la plastica rappresentazione di un uomo in crisi d'identità
Diavolo di un uomo, Gianfranco Fini non è riuscito a spiazzare e deludere soltanto i vecchi amici e commilitoni della destra, che tra lui e Silvio Berlusconi nel Pdl hanno scelto il secondo quando hanno avuto l'occasione di contarsi. Egli ha spiazzato e deluso anche quei giornalisti, diciamo così, contromano che un po' per la loro tendenza a proteggere le minoranze, un po' per la condivisione che ai loro occhi meritava la sua insofferenza per le modalità del dibattito all'interno del partito, la cui direzione ha praticamente esordito solo giovedì scorso, avevano speso parole e articoli a suo favore, qualche volta faticando nelle loro testate per sostenere il suo diritto alla corrente. Ce ne sono sempre state e ce ne sono, di correnti, in tutti i partiti democratici, in Italia e fuori, per cui a me, per esempio, è sembrato e sembra tuttora normale che ce ne possa essere una di minoranza nel pur atipico movimento nato l'anno scorso, sotto la guida carismatica di Berlusconi, dalla fusione tra Alleanza Nazionale e Forza Italia. Che cosa fa invece Fini dopo aver gridato in faccia al presidente del Consiglio il proprio dissenso, averne sentito la pronta e vivacissima reazione e aver fatto votare contro il documento conclusivo del dibattito una dozzina dei circa 170 esponenti della direzione? Egli mostra ai suoi amici parlamentari, riconvocati lunedì scorso a porte rigorosamente chiuse, una certa ritrosia o persino ostilità a chiamare corrente la sua compagnia, stando almeno alle cronache dell'incontro costruite sulle indiscrezioni. E perché mai, mi chiedo, visto che della corrente questa compagnia ha rivendicato sino al giorno prima il nome e continua a praticare i riti e il percorso, fatto anche di riunioni, di agenzie per internauti, o diavolerie del genere, e di un giornale, Secolo d'Italia, già del Movimento Sociale e poi di Alleanza Nazionale, che preferisce definirsi "quotidiano nel Pdl", e non del Pdl? Potrei anche decidere di chiamare "ciclamino" -che so?- la mia abitazione, al secondo piano di una comune palazzina, ma non per questo cesserebbe di essere un appartamento. O no? Persino il Riformista, che ha assegnato a Fini per due volte il premio del migliore politico dell'anno e gli riserva carinerie di sinistra ogni volta che può, ha dovuto contestare l'altro ieri in prima pagina al presidente della Camera, reduce dall'incontro con i suoi amici parlamentari, una imbarazzante "marcia indietro: dal passo dell'oca al passo del gambero". E non ne aveva ancora registrato gli ultimi due passaggi televisivi. Temo, per lui, che le strane accelerate, frenate, curve, retromarce e sbandate di Fini siano la plastica rappresentazione di una crisi d'identità, quasi esistenziale. Non vorrei che egli stesse fuggendo da se stesso. Che il suo guardare ossessivo al futuro, anche dalla torretta di quella quasi omonima Fondazione diretta "scientificamente" da Alessandro Campi, il quale scrive e sogna ora di governi "istituzionali" in caso di crisi, piuttosto che andare alle elezioni anticipate, servisse solo a sottrarsi al presente. Il cui unico torto è di stargli stretto, per quanto alta e comoda sia la sua carica istituzionale. Mi tornano alla mente, con il Fini di questi giorni, i tormenti un po' all'Amleto degli sfigatissimi Achille Occhetto e compagni, consumatisi nella ricerca di un nome da dare a quella misteriosissima "Cosa", come essi stessi ogni tanto la chiamavano, ch'era diventata il vecchio Pci dopo la caduta del comunismo.