segue dalla prima Dio. Fini non ha speso una parola per difendere il Pontefice dagli attacchi sui casi di pedofilia nella Chiesa.
Unsilenzio non dettato solo dalla prudenza di un politico che si muove con circospezione, ma dal fatto che Fini è culturalmente distante dal laico che dà a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Fini non ha avuto esitazioni nel denunciare l'atteggiamento mite della Chiesa sulle leggi razziali nel 1938, ma oggi di fronte a una Chiesa sotto attacco e alla comunità dei cattolici presa a schiaffi dai laicisti, egli tace. Patria. Fini immagina una nazione multietnica, con la cittadinanza breve e il voto per gli immigrati. Qui si pone un problema di identità della nazione i cui cardini per la destra sono ben altri. Attenzione, non sostengo che ci si debba aggrappare ad anacronistici ideali, ma la realtà italiana non può essere scambiata con quella della Francia. La nostra storia coloniale fu un disastro di breve durata e non ci fu alcun progetto di integrazione delle altre popolazioni, semmai di sola sottomissione. Il modello francese di assimilazione - per altro dagli esiti discutibili se non fallimentari - non è ipotizzabile per l'Italia, ma Fini ha deciso in splendida solitudine che la destra italiana dovesse percorrere una strada simile ma senza il giacobinismo culturale dei francesi. Il risultato del dibattito innescato da Fini in questi mesi è desolante perché non è riuscito nemmeno a chiarire con nettezza che «il diritto alla differenza» dello straniero deve accompagnarsi alla consapevolezza civica. Famiglia. Il tema della Patria e della sua identità s'accompagna a quello della natalità e del carattere nazionale. Anche qui le parole di Fini sono una spia precisa del suo pensiero. Il presidente della Camera non pone al centro del dibattito una soluzione per incoraggiare gli italiani a diventare padri e madri e guardare al futuro con fiducia ma, commentando il 23 marzo scorso i dati del Centro internazionale studi per la famiglia, coglie la palla al volo per spiegare che «senza gli immigrati saremmo in una condizione da allarme rosso e saremmo molto più bassi della media dei Paesi occidentali che sono agli ultimi posti». Non si pone la questione su cosa sia oggi la famiglia italiana, come si possa e debba conservare (sì, proprio conservare) e rilanciare il carattere nazionale partendo dagli italiani e dall'italianità. Qualcuno dirà che questo «dna nazionale» non esiste e semmai ce ne fosse stato uno, ha prodotto solo esempi negativi tipo il «così fan tutti» o la figura del «mammone opportunista» lanciata dai film di Alberto Sordi negli anni Cinquanta. La destra italiana però non ha mai abbracciato questa autobiografia della nazione. Basta leggere cosa scriveva Indro Montanelli sul Giornale che definiva l'Albertone nazionale «grasso, gradasso, furbastro, lazzarone e renitente alla leva. Di questa Italia "mammona" la Dc è la perfetta interprete». Erano i tempi in cui Montanelli non era l'idolo della sinistra, ma l'uomo che incarnava più e meglio di tutti la destra italiana. Su tutti questi temi il finismo ha gettato un colpo di spugna micidiale. Un autorevole esponente del Pdl, uno che ha trascorso la sua vita politica vicino a Fini, l'altro giorno allargava le braccia e mi diceva: «Ha fatto tutto da solo, non si è consultato con nessuno di noi». Nessun dibattito. Paradossalmente ciò che lui rimprovera oggi a un fin troppo morbido Berlusconi. Gli ex compagni di viaggio in un partito, prima il Msi e poi Alleanza nazionale che - a torto o a ragione - su quei tre pilastri aveva costruito la sua storia e identità, sono diventati zavorra ideologica. Fini ha picconato quel bagaglio culturale con tenacia, senza pensare alle conseguenze: l'allontanamento della sua figura di leader dal suo elettorato, da quella che nei partiti del Novecento veniva chiamata «base». Tatarella, l'uomo che sul sito web della Fondazione a lui intitolata Fini con nostalgia ricorda come «il figlio di un umile ciabattino, diventato vicepresidente del Consiglio, che trascorre la sua prima giornata, giocando a carte in un bar della Bari vecchia», avrebbe osservato le mosse di Gianfranco con grande preoccupazione. Solo tattica, niente strategia. Pinuccio, ribattezzato da Le Monde «le renard», la volpe, avrebbe consigliato non la costituzione di una corrente, ma il lavoro diplomatico per arrivare al suo progetto finale che è divenuto testamento ed eredità politica: «Voglio portare il Polo oltre il Polo». La fusione di Alleanza nazionale e di Forza Italia è una tappa di quell'idea che a Fini oggi «non piace». Costruire qualcosa non significa demolirla e neppure «vivere da separati in casa» come si dice oggi dalle parti dei finiani. Attenzione, i divorzi costano. Mario Sechi