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Opportunità economica da 35 miliardi di euro

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Ilprimo passo per avviare il processo di ritorno del nucleare in Italia è sicuramente l'individuazione dei siti che ospiteranno le centrali. I criteri di scelta sono stati dettagliati più volte: il reattore di tecnologia francese che sbarcherà in Italia, l'European Pressurized Reactor (Epr), richiede zone poco sismiche, in prossimità di grandi bacini d'acqua, senza il pericolo di inondazioni e, preferibilmente, lontane da aree densamente popolate. Fra i nomi che ricorrono con più frequenza ci sono ovviamente quelli già scelti per i precedenti impianti poi chiusi in seguito al referendum del 1987: Caorso (Piacenza) e Trino Vercellese (Vercelli), entrambi collocati nella pianura Padana e quindi con basso rischio sismico e disponibilità di acqua di fiume. Ma anche Montalto di Castro (Viterbo) che può contare sulla presenza di acqua di mare. E poi Termoli (Campobasso), Porto Tolle (Rovigo) dove c'è già una centrale a olio combustibile in processo di conversione a carbone pulito, Monfalcone (Gorizia), Scanzano Jonico (Matera), Palma (Agrigento), Oristano e Chioggia (Venezia). In realtà, però, le decisioni sul tema potranno arrivare solo dopo la nascita e l'entrata a regime dell'Agenzia Nucleare. Nel frattempo non mancano ovviamente le polemiche, con l'«Italia del no» già mobilitata per evitare un ritorno al passato. Quello che i no-nuke non considerano è che per il sistema imprenditoriale delle singole Regioni sarebbe un'occasione unica di sviluppo, economico, tecnologico, professionale. Basta leggere i numeri, infatti, per capire che si tratta di una gigantesca opportunità. Secondo le previsioni di Confindustria, per la realizzazione delle centrali in Italia sono da attendersi investimenti complessivi per 35 miliardi di euro, il 70-80% dei quali potrebbe essere affidato al made in Italy. Il solo piano di Enel-Edf, ormai sugellato ufficialmente nell'ultimo vertice Italia-Francia, vale 16-18 miliardi di euro in termini di investimenti per la realizzazione di quattro reattori nucleari. Un impianto vale 4-4,5 miliardi e l'investimento da dividere tra le aziende di settore tricolori sarebbe tra i 2,8 e i 3 miliardi di euro. A parte i componenti principali dell'isola nucleare, appannaggio della francese Areva che ha sviluppato la tecnologia e detiene i brevetti, su una parte del reattore stesso e sulle altre opere per la costruzione della centrale (la parte convenzionale con le turbine, l'impiantistica, i trasformatori e altro) entrerebbe in ballo la filiera tradizionale. E cioè i fabbricanti di sistemi elettronici, cavi, cuscinetti, parti forgiate, tubi e soprattutto l'edilizia e la cantieristica per tirare su le strutture. E se su un sito si decidesse di sviluppare non uno ma due reattori, eventualità possibile secondo gli esperti, l'investimento e quindi i ricavi per le aziende italiane andrebbero a moltiplicati per due. Nel Lazio sono 34 le aziende locali in prima linea per il nucleare. Quelle che il 20 gennaio scorso hanno partecipato al supply chain meeting, organizzato da Enel e da Confindustria e mirato alla rinascita della filiera italiana dell'industria nucleare. A queste sul territorio si potrà aggiungere un enorme spazio per l'indotto. Non solo. A beneficiare del ritorno all'atomo saranno anche i cittadini del comune che ospiterà il sito. Per il quale la legge prevede un contributo una tantum, come forma di «anticipo» di 30 milioni di euro per 5 anni da dividersi tra le imprese, le amministrazioni e i cittadini. A questo si aggiunge 0,30 euro per megawatt (circa 4 milioni di euro l'anno) dal momento in cui va in funzione e per tutta la vita dell'impianto, cioè circa 60 anni. Infine il comune che ospita il sito incasserà circa 13 milioni di euro di Ici.

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