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Nel discorso di Gianfranco economia e finanza ignorate

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Nella requisitoria anti-Cavaliere pronunciata giovedì da Gianfranco Fini c'è un solo punto che abbia un qualche contenuto economico: la mancata abolizione delle province, ed i relativi mancati risparmi. Tutto il resto sembra francamente ruotare intorno a questioni di stretta politica di partito che poco hanno a che fare sia con gli interessi concreti degli elettori, sia con i fatti che ormai da tempo determinano l'azione dei governi, a qualsiasi latitudine. Nessun accenno alla crisi finanziaria mondiale, che pure domina tutti i dibattiti politici del mondo, buon ultimo quello in Gran Bretagna tra Gordon Brown, David Cameron e Nick Clegg. Non basta riconoscere i meriti di Giulio Tremonti; Fini dovrebbe anche dire se l'Italia, con il default della Grecia dietro l'angolo ed i mercati in subbuglio, può permettersi il lusso dell'instabilità politica. Non solo. Sappiamo come il centrodestra abbia finora deluso chi si aspettava un taglio di tasse; ma sappiamo pure che se a fine 2009 fosse passata la proposta del finiano Mario Baldassarri – ridurre le tasse in cambio di una parallela riduzione di “impegni di spesa” a carico degli enti locali – oggi ci troveremmo in una situazione di finanza pubblica tra Atene e Lisbona, e di dissesto per città come Roma e Napoli, e per regioni come Lazio, Campania, Calabria e Puglia. Quasi tutte, per inciso, amministrate dal centrodestra, in prevalenza da sindaci e governatori dell'ex An. Sempre da parte del presidente della Camera, abbiamo ascoltato molte messe in guardia contro la “trazione leghista”, ma nessun riferimento a come il sistema economico e finanziario del Paese possa e debba (e probabilmente voglia) occuparsi del Centro e del Sud con strumenti diversi rispetto al vecchio assistenzialismo di Stato. E, a proposito di assistenzialismo e di vecchi e nuovi poteri, non una parola sulla vicenda Fiat, che probabilmente cambierà non solo i modelli di produzione del made in Italy (oltre che del Lingotto), ma anche i tradizionali rapporti tra industria e sindacato. Ancora. Nulla sul mondo delle banche e della finanza in generale. Un mondo che fino a ieri era quasi compattamente ulivista, e che da qualche tempo ha invece cominciato a prestare grande riguardo all'area moderata. Un po' grazie alle tessiture di Tremonti, un po' per l'abilità e l'astuzia di personaggi come Cesare Geronzi, Massimo Ponzellini e Fabrizio Palenzona, un po' certo per il camaleontismo dei Bazoli, dei Passera, dei Profumo. Ed ancora, zero attenzione verso quelle energie imprenditoriali che stanno crescendo e mirando in alto: ultimo esempio, tra i molti, la creazione di una cordata di soci industriali nelle Generali come contraltare del potere di Mediobanca, e tra questi nomi come Francesco Gaetano Caltagirone (ora vicepresidente del leone di Trieste) e Leonardo Del Vecchio. Conosciamo la formazione e l'attitudine tipicamente politica di Fini. Ma questo suo essere “totus politicus” non può fargli trascurare che il mondo e l'Italia girano sempre più velocemente su altre orbite. Non è la solita questione dei poteri più o meno forti; i quali sono in fondo, da sempre, l'oggetto di fatale (e ricambiata) attenzione da parte della politica pura: come dimostrano tra l'altro proprio i giri di valzer tra la fondazione finiana e quella montezemoliana, rutelliana, dalemiana. No: è un problema di concrete priorità economiche del Paese. Capitoli che nell'agenda finiana sembrano del tutto assenti. Vogliamo elencarne alcuni? Il ritorno al nucleare: che riguarda ovviamente il fabbisogno energetico nazionale, ma anche la rimessa in moto di un blocco di investimenti e ricerca per oltre 40 miliardi di euro, ed alcune decine di migliaia di posti di lavoro, in massima parte di alto livello. Che richiede scelte ed assunzioni di responsabilità da parte di regioni e comuni, anche questi in gran parte a guida centrodestra. Che ha come caposaldo accordi strategici, industriali e finanziari, tra Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy, proprio il presidente francese al quale Fini dichiara costantemente di ispirarsi. Bene, tutto questo dossier ce l'ha in mano Claudio Scajola, un ministro di Berlusconi. E presto verrà girato a governatori come Renata Polverini e Giuseppe Scopelliti, appunto indicati da Fini (e poi “dimenticati” prima delle Regionali). Ancora Scajola ha in mano il dossier Fiat, con annessi e connessi. Un piano che, nelle intenzioni, raddoppierà la produzione di auto e triplicherà gli investimenti in Italia, ed in gran parte – come per il nucleare - proprio in quel Centro-Sud che Fini vorrebbe difendere e rappresentare contro la “trazione leghista”: pensiamo a Melfi, Cassino, Pomigliano. Un progetto inoltre, che pare appunto destinato ad innovare radicalmente le relazioni con i sindacati, se essi accetteranno i modelli produttivi di Sergio Marchionne. Possibile restare del tutto assenti (o, peggio, indifferenti) rispetto ad un processo simile? Altero Matteoli, ironia del destino ex colonnello finiano, gestisce il fascicolo delle infrastrutture e delle grandi opere. Che ancora una volta riguarda principalmente il Sud, visto che è dal Lazio in giù che si tratta di convincere i privati ad investire in strade, alta velocità ferroviaria, acquedotti. Operazioni che dovrebbero essere terreno della Banca del Mezzogiorno voluta da Tremonti con il sostegno finanziario delle Banche di credito cooperativo - una delle potenze nascoste dell'Italia - e delle Poste, al cui vertice siede uno dei pochi manager pubblici considerati finiani: Massimo Sarmi. E naturalmente sempre Tremonti è il dominus non solo della finanza pubblica, ma di quasi tutte le partite di potere finanziario privato, dalle Generali alle fondazioni bancarie. Sono solo alcuni esempi. Ma di tutto ciò, o di quanto questo rappresenti di nuovo per il sistema Italia, non pare vi sia traccia nel pensiero finiano. Così come non risultano evidenze di quanto stanno rischiando in termini economici Roma e il Lazio, come documentato dal Tempo di martedì 20 aprile: e forse è anche pensando a questo che ad un certo punto, durante la direzione del Pdl di giovedì scorso, Gianni Alemanno si è messo le mani nei capelli. Dalle varie liste di fedelissimi del presidente della Camera pronti a “rendere la vita impossibile al governo” emergono nomi come Baldassarri, come il presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, Silvano Moffa (intervistato pochi giorni fa da questo giornale), come il senatore Andrea Augello, uomo-chiave della vita politica romana. Non è molto, rispetto a quanto può mettere in campo Berlusconi sul terreno dell'economia. Ma forse è abbastanza per dare al capo qualche buon consiglio in extremis.

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