Fini e il peso delle parole

Proviamo a dare per acquisita l’interpretazione della tattica politica del Presidente Fini come introduzione conflittuale di calcolati contrappesi alla rinnovata pressione della Lega e, all'interno del PdL, alla leadership di Berlusconi o, almeno, alle sue implicazioni (ai suoi costi o vincoli-condizionamenti per l'intero centrodestra). Sembrerà paradossale, ma già questa scontata caratterizzazione offre indicazioni essenziali sul dato meno visibile (idee, programmi) o meno analizzato: la cerchia di Fini si esprime oggi come una minoranza che combatte per una decisione politica senza costi, per un'azione esente da vincoli. Avviene spesso, forse è la regola per una minoranza; chi non ha responsabilità si pensa, astrattamente e suggestivamente, con le "mani libere". Basti ricordare come si preannuncia l'azione della dissidenza finiana sui terreni bioetici. Trattandosi di un approdo raggiunto in tempi brevi (parlo del quadro di idee di Fini e dei suoi), esso ha i caratteri di una scelta di mosse su una scacchiera, della costruzione fredda di uno spazio di azione entro il PdL, nella quale si mettono assieme, in versione semplificata, argomenti e temi da sempre opposti alla cultura politica del centrodestra, oltre che all'azione personale di Berlusconi. E sono, in positivo e in negativo: la "difesa" della Costituzione e i diritti di eguaglianza, contro i progetti di riforma, non meno che contro le leggi cosiddette ad personam; la "difesa" della laicità dello Stato, contro la peculiare consonanza tra la cultura liberale e cattolica del PdL, la chiesa italiana e gli ultimi pontefici; l'allarme per la "deriva plebiscitaria" come rischio di una nuova architettura della leadership. Perché una contrapposizione così sorda ai risultati del laboratorio politico liberale italiano degli ultimi quindici anni? È stato agevole, forse spontaneo, per il gruppo finiano selezionare alcuni oggetti del senso comune liberal-democratico, per definizione beni correnti se inflazionati, raccogliendoli dai terreni che la riflessione del centrodestra ha invece attraversato criticamente - dalle forme di governo all'identità nazionale ad una concezione non "continentale" di laicità. Fini si è trovato così a disporre, automaticamente, di prospettive difformi da quelle del centrodestra, e di ragioni polemiche analoghe (senza sorpresa!) a quelle di una generica cultura di opposizione laica o "di sinistra". Il recente libro di Fini, «Il futuro della libertà», copre appena, col pretesto di un libro ai giovani, la fragilità, il carattere derivativo, di questa elaborazione culturale; già nel titolo. La composizione affrettata e "a freddo" di un tale sillabario di educazione civica è rivelata, in modo cruciale, dalla sua impoliticità, se si esclude l'uso contingente nella tattica di partito e nella ricerca del consenso sul "centro" e sulla "sinistra", culture ormai moralistiche e impolitiche anch'esse. La politicità di una tesi generale consiste, infatti, nella sua capacità di generare programmi, poi implementati da decisioni particolari che siano nei fatti all'altezza delle richieste della polis. La stessa determinatezza di programmi e atti implica inclusioni ed esclusioni, priorità e sequenze obbligate. Il praticabile disegna incompatibilità nelle nostre azioni e nega la rassicurante serie degli et et (nega il facile e ideologico: "fare a, ma anche b, senza dimenticare naturalmente c e d "). Niente di più diverso dalle generalità benintenzionate che vengono scagliate contro chi governa, nella politica da caffè. Non si procede alle decisioni buone attraverso le parole buone, di cui il mondo finiano candidamente abusa come paradossale arma polemica. Il lungo elenco che ne proponeva il Secolo d'Italia domenica scorsa, "decoro, serietà, integrità, legalità, sobrietà, stile, moderazione, pacatezza, altruismo, condivisione, libertà, dignità", e avanti così per un capoverso, è solo un rosario malizioso, non politica e nemmeno progetto fondativo; sono lemmi con tanti usi, che possono motivare e coprire azioni e politiche addirittura pessime. Certamente non si "torna alla politica" per questa strada. La formula e l'esortazione, del genere "rivitalizzare la società per rivitalizzare l'economia" (uno slogan che il Presidente Fini ha evocato maneggiando «La mia rivoluzione conservatrice» di David Cameron), sono in sé del tutto impolitiche; e destinate a restarlo in quanto predicatorie. Non a caso il "sermone" non è il proprium del politico; ed è frequentemente la maschera di un non (saper) analizzare né operare. Una specie di motto era rimasto nella mia memoria di adolescente, "più parole più idee" (una fortunata rubrica di "Selezione dal Reader's Digest"): sarà per questo che mi colpisce il contrasto tra le troppe parole e le poche e desuete idee della battaglia del Presidente Fini, e l'effervescenza artificiosa (non è possibile che i finiani pensino sul serio di aver scoperto l'acqua calda; ho troppa istintiva stima per alcuni di loro) che cerca delle "tesi" per dare legittimità e coerenza ad una rupture prodotta da altre motivazioni e molle. Con danno sicuro per le idee, e per la ricerca fondativa di cui la congiuntura storica ha bisogno.