Gianfranco, il ritorno dalla madre al padre
Una parabola umana prima che politica. Per capire dove andrà a parare Gianfranco Fini bisogna guardare, per quel che è possibile, alla sua svolta interiore, intima. Spiega un uomo che lo conosce da molti anni, standogli a lungo accanto: «Non bisogna andare molto in là, sono due facce della stessa medaglia. Fino a un certo punto della sua vita, Gianfranco è stato uguale a sua madre Danila. Poi ha riscoperto il padre: è diventato identico a Sergio». Che cosa vuol dire? Vuol dire che Fini per i primi cinquanta anni della sua vita è stato un tradizionalista. Dio, patria e famiglia. Un po' come la madre, scomparsa nel 2008. Prudente. Timoroso. Terrorizzato all'ipotesi di restare solo. Poi si è riscoperto laico, concreto, severo, solitario. E allo stesso tempo, sobrio. Culturalmente, un tempo lo si sarebbe potuto definire "azionista" alla Carlo Azeglio Ciampi, per la riscoperta di temi come il patriottismo repubblicano, la difesa delle istituzioni, il rifiuto degli sfarzi. La sintonia con Napolitano è ovvia conseguenza. Impossibile – dall'esterno - definire il momento della svolta, lo snodo della metamorfosi. E comunque non è questo l'importante. Quel che politicamente conta è che Fini abbia impiegato larga parte della sua carriera da leader a farsi accettare, a smontare gli stereotipi sull'uomo di destra. A rassicurare il mondo di essere “normale”. Concedendosi solo qualche lusso, qualche esagerazione. Come per esempio, farsi fotografare a bordo di un'auto d'epoca o di una spider, o in un campo di calcio, nella tribuna vip dello stadio, sulla pista da ballo del Jackie 'O impegnato in uno scatenato twist. A trascorrere le vacanze al mare di Porto Cervo. Una volta esaurita questa fase, se ne è aperta un'altra. Fini lascia la moglie Daniela e comincia una nuova relazione con una donna, Elisabetta Tulliani, che certamente non viene dal partito. Lascia il quartiere Trieste di Roma e ne sceglie uno più tranquillo, in zona Aurelia, non lontano dalla pompa di benzina che gestiva il padre all'angolo, tra via dei Colli Portuensi e la circonvallazione Gianicolense. Diventa riservato sulla sua vita non pubblica. I fine settimana a casa con la famiglia. Qualche passeggiata in centro, in jeans, ma i fotografi vengono tenuti a distanza. La domenica in bici a villa Borghese. E cambia anche la percezione che gli altri hanno di lui. «Finiano» un tempo, nel mondo della destra, indicava una specie di superficialità, una ricerca dell'applauso facile della platea, con una punta di populismo, della battuta che colpisce ma scivola via come l'acqua sul vetro: senza lasciare nulla. Fini era anche considerato, forse a torto, non troppo coraggioso. Sergio Mariani, primo marito di Daniela che Fini gli «scippò» (e Mariani, meglio noto come «Folgorino», tentò il suicidio), qualche anno fa in un'intervista sull'Espresso lo ricordò così: «Fini vestiva sempre in trench chiaro o con un cappotto di pelle nera, ma era un po' troppo distaccato, per i nostri gusti». Ragion per cui sospettarono fosse un infiltrato. «Una sera decidono di dargli una lezione, bastonarlo - raccontò Mariani -. Lui si accorge del pedinamento, scappa, si infila in un palazzo. Io lo seguo e lo trovo rannicchiato in un sottoscala. Mi prende le gambe: "Sergio, che colpa ne ho se non ho il vostro coraggio?"». Oggi “finiano” è diventato sinonimo di ardito. Il suo «Che fai? Mi cacci?» rivolto a Berlusconi viene considerato, a destra, un gesto eroico: non è da tutti sfidare la dittatura della maggioranza con le idee e non con i numeri. Romanticismo della politica. Fini adesso è dipinto come un combattente senza paure che si lancia persino in partite senza possibilità di vittoria. Anzi, andando incontro a sicure sconfitte. Non è un caso che abbia voluto rivedere di recente ex amici di Meridiano Zero, e del Fronte della Gioventù degli anni caldi. Insomma, i duri e puri che a Fiuggi andarono via. Non è un caso che in questo percorso si sia ritrovato attorno soprattutto ex rautiani come Pasquale Viespoli, Silvano Moffa, Andrea Augello. Oppure mennitiani come Adolfo Urso. Oppure almirantiani donchisciotteschi come Roberto Menia. Anche se forse il leader a cui il Fini attuale assomiglia di più è Beppe Niccolai, quello che si poneva l'obiettivo di «denunciare i nemici mortali che sono dentro di noi: la casta contro l'impegno morale; la burocratizzazione; la corte e i cortigiani; la tendenza a ridurre il partito periferico ad un rete di piazzisti del voto, e che conduce ad una selezione verticistica della classe dirigente secondo le fedeltà, non alle linee ideali, ma alle persone che hanno il potere...».