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Parole pesanti

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Unduello che era nell'aria da mesi e che alla fine è sfociato in una vera e propria rissa verbale. Il tutto in piena direzione nazionale, con tutto il partito lì a guardare. Comincia Fini a ribadire tutte le sue idee, rivendicando il diritto a non essere d'accordo con il presidente del Consiglio. Continua Berlusconi, rinfacciando all'ex capo di An con toni durissimi tutto quello che ha fatto e detto nelle ultime settimane. Non solo. Il premier alla fine ha dato l'ultimatum all'ex leader di An: «Se vuoi continuare a fare politica, fallo. Ma lascia la presidenza della Camera!». Parole che rimbalzano da una fila all'altra della sala dell'Auditorium Conciliazione, Fini scatta in piedi punta l'indice contro il premier e urla: «Sennò mi cacci?». Berlusconi: «Ci devo pensare». È il momento di massima tensione tra i due, con il Cavaliere a questo punto ancora più determinato ad andare avanti sulla sua strada, a non concedere più all'ex amico Gianfranco possibilità o chance di qualsiasi genere. Anzi. «Al primo errore è fuori dal partito». La scena della lite tra i due fondatori del Pdl a tanti è sembrata quella tra due vecchi coniugi ormai in piena causa di separazione. Si rinfacciano parole dette, si ricordano vecchi episodi di attrito, antiche discussioni. Non si sa quando arriverà il divorzio, ma ormai sembra proprio inevitabile. Berlusconi se lo sentiva che sarebbe andata a finire in questo modo, come aveva confidato a qualche stretto collaboratore la sera prima. Amareggiato lo ha ripetuto anche rientrando a Palazzo Grazioli alla fine della Direzione nazionale: «A questo punto sarebbe stato meglio se fosse uscito dal partito». E dire che in apertura dei lavori, con il discorso introduttivo del presidente del Consiglio sembrava si potesse arrivare se non ad una riappacificazione ad un rapporto di civile convivenza. Con il premier che lo saluta (Fini è seduto in prima fila accanto ad Ignazio La Russa) invitandolo a parlare quando volesse. Poi il discorso del Cav sui grandi temi della maggioranza, la recente vittoria elettorale, i successi del governo, tornando sui temi dell'emergenza rifiuti in Campania, degli interventi post terremoto in Abruzzo, della tenuta sul fronte economico nonostante la crisi. Fini ascolta. Seguono poi i coordinatori. Ed è Sandro Bondi a scaldare la platea urlando a gran voce che nel Pdl «non ci sono uomini liberi e servi», attaccando alcuni intellettuali di centrodestra. In particolare «il professor Campi» e «il dottor Rossi» di Farefuturo, a suo parere troppo critici con il partito e con il suo leader, «una personalità che come riconoscono tutti giganteggia sugli altri», chiedendo poi di prendere le distanze da chi «vuole denigrare un uomo e un leader al quale ciascuno di noi deve molto». È questo intervento, più di tutti, che fa scaldare gli animi dei finiani. Tanto che lo stesso presidente della Camera lo riprende più volte nel suo discorso. Sono quasi le due quando Fini chiude il suo intervento. Stretta di mano gelida con il premier e senza mai guardarsi negli occhi. Berlusconi non ce la fa a non replicare: sul programma era previsto un saluto conclusivo nel pomeriggio. Ma lui non ce l'ha fatta. «Gianfranco mi ha tirato in ballo troppe volte e io devo replicare». Lo fa punto per punto, avendo scritto su dei grandi fogli bianchi tutti gli argomenti trattati dall'ex amico. Berlusconi parla e Fini si alza in piedi a più riprese puntando il dito contro il premier. È un velenoso scambio di battute: il Cavaliere ricorda il pranzo della scorsa settimana quando si sono incontrati a Montecitorio insieme a Gianni Letta: «Mi hai detto di esserti pentito di aver fondato con me il Popolo della libertà», urla il premier. Gli rinfaccia di voler essere a tutti i costi superpartes ma, di fatto, fa politica. «Non sei venuto neanche in piazza San Giovanni per la nostra manifestazione», tuona ancora il Cav. Alla fine i numeri danno ragione al presidente del Consiglio. Il voto al documento finale parla chiaro e la maggioranza, con soli 12 voti contrari, è evidente a tutti. Dopo uno scenario del genere, la domanda che scatta è solo una: che succederà ora? Fini non lascia. Resta però la sensazione netta che al primo scontro, magari sulla giustizia, salterà tutto. Berlusconi lo sa e se l'aspetta. Ma sa anche che, dati alla mano, «Fini ha il 6% del partito. Motivo per cui non può rappresentarci alla Camera dei deputati». L'obiettivo è farlo fuori dal Pdl: «Vuole logorarmi, se ne deve andare», l'imperativo categorico del Cavaliere. Intanto un primo passaggio importante: a settembre, dopo i primi due anni e mezzo di legislatura, scadono alcune importanti nomine parlamentari. Capigruppo e vice, presidenti di commissione, e così via. Alcune di queste caselline, oggi sono occupate da finiani doc (tra loro Giulia Bongiorno e Silvano Moffa presidenti delle Commissioni Giustizia e Lavoro alla Camera). Il premier potrebbe voler cominciare da qui, mettendo mano a queste poltrone, temendo proprio la «guerriglia» dentro il Parlamento. «Basta avere gente che rema contro. D'ora in avanti chi non si allinea è fuori».

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