Gianfranco e il "divorzio" nel Pdl Va in scena l'ultimo psicodramma
Lui è semplicemente Checchino. Si chiama Francesco Cosmi Proietti ma nessuno se lo ricorda più perché per tutti è Checchino, l'uomo ombra di Gianfranco Fini. Uno che malignamente veniva chiamato il «delegato agli impicci» e per un po' ci ha scherzato su anche lui. L'onorevole Proietti, subito dopo la riunione dei finiani, se ne sta all'angolo tra via della Scrofa e via dei Portoghesi e parlotta con una vecchia conoscenza di Fini, il suo ex portavoce Salvo Sottile. Sentenzia Proietti che è uno dai modi spicci e diretti: «Semo tornati al 1990. Rauti contro Fini, Fini contro Rauti. E adesso si capisce chi sta con Gianfranco. Noi cominciamo ad avere nostalgia addirittura del Msi, della discussione, del dibattito. Vogliamo avere il diritto di parlare e di dire la nostra. Stamo all'opposizione? Embè? Mo' si capisce chi ci sta davvero, senza se e senza ma. Lui pone dei problemi veri, politici, quelli che ha ripetuto per mesi. Chi ci sta, ci sta». Ecco, non c'è bisogno di decriptare. Quello che è accaduto ieri alla Camera non è tanto la nascita della corrente di Fini, di cui si conoscono finanche i dettagli da almeno una settimana. E non è neanche una rottura all'interno del Pdl. È uno dei più traumatici eventi della storia della destra italiana. È, politicamente è ovvio, una tragedia umana. Paola Frassinetti, una tosta deputata milanese, firma contro Fini e ha un piccolo malore: se ne va a piazza del Pantheon a prendere aria. Carmelo Briguglio assale Barbara Saltamartini, per una vita erano assieme dentro Destra sociale. Si rompono amicizie decennali, ventennali, trentennali. Va in crisi il senatore lucano Digilio, gasparriano che ha firmato per Fini. Ed è normale. Fu proprio l'area vasta di Tatarella, gli almirantiani, a portare Fini alla prima segreteria del Msi nell'87. E a riportarcelo nel '91. Il motore di quel mondo era Maurizio Gasparri, proprio colui che oggi ispira il documento anti-Fini. Passeggia davanti a Giolitti la larussiana Viviana Beccalossi, guarda l'ingresso del palazzo dei gruppi, scorge al quarto piano le finestre dove stanno riuniti i finiani e sospira: «Non mi hanno manco chiamato. Potevano fare un gesto. Per loro i miei ventiquattro anni di militanza a destra non sono nulla». Non a caso le parole che si rincorrono sono sempre le stesse: storia, cuore, passione. Resta in silenzio Giorgia Meloni, la più giovane e forse colei che ha sofferto di più. Fu Fini a lanciarla appena ventinovenne vicepresidente della Camera, poi ministro. Gasparri che in fin dei conti la prima rottura con Fini l'aveva già vissuta solitariamente nel '97, la chiama a ripetizione. Agostino Ghiglia firma tutt'e due i documenti. Pure Marcello De Angelis, che viene invece da Destra sociale, fa lo stesso. La politica è parole, sicuramente. Ma nulla parla meglio della fisicità. Quando nel pomeriggio la seduta della Camera riprende più del clima dichiarano le sedie. Quelle a fianco dei finiani sono tutte vuote. Fabrizio Cicchitto si siede in quarta fila, Italo Bocchino in quinta giusto dietro di lui. Alla sua sinistra il corridoio, alla sua destra un posto vuoto, poi Manuela Repetti, la compagna di Bondi. Bocchino saluta il larussiano Massimo Corsaro. Nessuno si avvicina a lui, nessuno gli rivolge la parola. E forse è anche tutto eccessivo. Tanto che lui si mette a leggere i giornali, prima Il Secolo e poi La Stampa. Lo lasciano solo. Se ne rende conto Cicchitto, che tra un voto e l'altro lo va a trovare. Adolfo Urso siede tra i banchi del governo all'estremità vicino ai banchi di sinistra. Alla sua destra, una sedia vuota. Poi Bonaiuti che dopo un po' si alza, saluta Beatrice Lorenzin e poi torna ai banchi dell'esecutivo. Stavolta a due poltrone dal viceministro finiano, al quale si avvicina solo il fedelissimo Enzo Raisi. Gli rivolge la parola solo Elio Vito. Al centro della fila dietro invece c'è Andrea Ronchi, più lontano possibile si va a sedere Renato Brunetta. Sopra tutti lui, Fini. Lo va a trovare prima Luca Barbareschi, poi Enrico Letta, quindi Fabio Granata, il Pd Stefano Graziano. Fini si alza e se ne va, non lo saluta nessuno, inforca il corridoio e conquista l'ufficio. I finiani isolati, non sembrano una corrente ma una riserva indiana. Trattati da appestati anzitutto dai loro. Esce Alessandro Ruben, eletto in quota Fini. Vede Bonaiuti nel corridoio: «Che aria che tira. Fammi andare a salutare Paolino, va».