L'inutile rivolta
Il problema di uno, non quello di una componente. Più i giorni passano più gli uomini vicini a Gianfranco Fini alzano il tiro, usano toni gravi. «Non possiamo buttare via la nostra storia, i cinquant'anni di destra italiana», è il nuovo ritornello che si ode da chi frequenta il presidente della Camera. Nella realtà chi da quella storia proviene e non fa parte dell'entourage di Fini appare più che mai tranquillo e sereno. Tutto il mondo di An è largamente rappresentato all'interno del governo, addirittura in crescita politicamente e sul territorio. È solo Fini che si sente ridotto in un angolo. Gli ex del partito di via della Scrofa sono presenti nel governo in tutti i posti chiave. Altero Matteoli è ministro delle Infrastrutture che in pratica racchiude tre dicasteri: Trasporti, Lavori Pubblici e Marina mercantile. Allo stesso livello nel governo ci sono solo Tremonti e Scajola. C'era anche Sacconi che però ha dovuto cedere strada facendo la Salute. Altro ministro di peso è Ignazio La Russa, titolare della Difesa e anche coordinatore del Pdl. Poi ci sono Andrea Ronchi, finiano doc che però ieri appariva piuttosto sereno tanto da andarsi a vedere il derby, e Giorgia Meloni. Già, la Meloni. Era leader dei giovani di An, ora è la leader dei ragazzi di tutto il Pdl e ministro di tutti i ragazzi italiani: il suo spazio politico è cresciuto negli ultimi due anni, non ridotto. C'è poi un viceministro, Adolfo Urso, e la truppa di sottosegretari a cui si è aggiunto di recente anche Andrea Augello alla Funzione Pubblica. Nella stessa tornata sono due berlusconiane di ferro, Laura Ravetto e Daniela Santanché, sono state nominate rispettivamente ai Rapporti con il Parlamento e all'Attuazione del programma. La Camera è saldamente nelle mani del dominus Gianfranco. E Fini può condizionare la linea del Pdl visto che il vicecapogruppo vicario Italo Bocchino risponde a lui. E dal suo ex partito vengono anche i presidenti delle commissioni Difesa, Cirielli, e Lavoro, Moffa. Al Senato è ex An il capogruppo Maurizio Gasparri e i presidenti di commissione Giustizia (Berselli), Finanze (Baldassarri) e Industria (Cursi). E giù per li rami. Gli ex An governano due Regioni di primo piano, Lazio e Calabria. Non era mai accaduto nella storia della destra. Al massimo aveva governato una grande regione e una piccola, come Lazio e Abruzzo, contemporaneamente. Ancora più sul territorio il Pdl, e dunque quelli di An, non hanno mai governato nella loro storia così tanto. Il centrodestra è partito avendo in mano appena quattro Provincie, appena prima della fondazione del partito unico ne aveva 27 e 82 erano del centrosinistra. Oggi il centrodestra ne governa 58 e 51 il centrosinistra. Insomma, considerare sottorappresentata An non è realistico. Il punto è che è solo Fini a sentirsi sottorappresentato. Prendendo per buoni i numeri che forniscono i suoi, risponderebbero al presidente della Camera quaranta deputati e venti senatori, il doppio del necessario per creare i gruppi autonomi ma meno metà degli 82 deputati e i 48 senatori eletti in quota An. E anche questo sarebbe un dato su cui riflettere. Il punto è che in queste ore c'è molto smarrimento anche tra i finiani. Smarrimento paradossale perché la critica che viene mossa al presidente della Camera dai suoi è la stessa che Fini rivolge a Berlusconi: non si discute. La componente di minoranza del Pdl non si è mai riunita, no ha mai discusso una linea. I vari deputati e senatori sono in diretto contatto con il capo ma non tra loro. Anche per questo aumentano le tensioni. Sotto accusa adesso è il momento di Italo Bocchino, «reo» di aver usato toni troppo duri, troppo esasperati nei confronti del Pdl. E di aver condotto o consigliato Fini sulla linea scissionista. Con il vicecapogruppo c'è anche Carmelo Briguglio che ha già vissuto qualcosa di analogo: era con Storace e lo seguì sino all'annuncio di scissione per poi rimanere dentro An. I due continueranno a far salire la tensione, anche in maniera provocatoria, fino alla direzione nazionale del Pdl di giovedì. Ieri per esempio Briguglio ha sparato anche la «nascita di un nuovo partito di centrodestra che si riconosca nelle idee del presidente della Camera, legato da un rapporto di coalizione col partito di Berlusconi e con il governo». Una soluzione che, complice la domenica, è caduta un po' nel vuoto. Discorso a parte invece è quello di Fabio Granata, che in settimana avrà l'onore di avere il principale inquilino di Montecitorio alla presentazione del suo libro assieme a Pisanu e Veltroni. Le dichiarazioni del deputato siciliano hanno creato più di una fibrillazione. Per lui vale la definizione di un altro finiano doc, Pasquale Viespoli, che nell'ultimo ufficio di presidenza lo ha definito «finiota». E così gli uomini del presidente si vedranno per la prima volta domani. Finora le convocazioni le ha diramate Rita Marino, capo della segretaria di Fini: dunque, non un politico vero e proprio. La bionda e silenziosa ombra di Gianfranco ha chiamato i deputati ex An, ha letto loro la dichiarazione del capo, ha chiesto se la condividevano e ha annunciato l'incontro di domani pomeriggio. Ci saranno da un minimo di trenta deputati a forse quaranta, quarantadue. Ci saranno forse tutti quelli della quota Fini delle liste elettorali: Barbareschi, Ruben, Nirenstein tanto per fare qualche nome. Ma non tutti quelli che ci saranno sono per la scissione. Anzi, i gruppi autonomi sono un'ipotesi che va scemando di ora in ora. Molto probabilmente Fini proporrà la costituzione di una corrente di minoranza interna al Pdl. Potrebbe formalizzarlo con un documento da far votare. Il testo ricalcherà i temi che da mesi solleva il co-fondatore. La nuova componente non si chiamerà sicuramente «Generazione Italia», dal sito web e futuro movimento lanciato Bocchino. Anche perché Fini non vuole dare la primogenitura a un solo esponente né a uno solo vuole affidare l'intera operazione politica. Particolari colpi di scena non se li aspetta nessuno dei due campi. Anche tra i finiani la direzione di marcia sembra segnata e nessuno, proprio mentre inizia una nuova settimana forse decisiva, appare disponibile a fare passi indietro di particolare rilievo. Sebbene la politica, e soprattutto quando si è trattato di Silvio Berlusconi, ha abituato tutti a colpi di scena.