Il Pdl litiga, Roma paga
Se c'è una città che non può permettersi il prezzo di una rottura tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi, è proprio Roma. E se c'è una regione, è il Lazio. Ciò spiega anche perché molti mediatori siano tra i capi della politica e dell'amministrazione romana, a cominciare da Gianni Alemanno. Il sindaco, in verità, finiano non è mai stato, neppure quando tra il premier ed il presidente della Camera le cose filavano lisce. Massimo riferimento dell'ala sociale e post-rautiana di An, Alemanno nel 2001-2006 fu un ministro dell'Agricoltura autonomo rispetto a Fini ed a quelli che allora, nel governo, erano considerati i suoi colonnelli, da Maurizio Gasparri ad Altero Matteoli ad Adolfo Urso. Questo ha permesso ad Alemanno di conquistare il Campidoglio, in coincidenza della vittoria di Berlusconi alle politiche 2008, senza dover pagare pedaggio a Fini. E questo mette ora il sindaco nella condizione di proporsi più liberamente come pontiere. Su scala ridotta, visto che si affaccia adesso alla ribalta politica, stesso discorso si può fare per Renata Polverini. Candidata da Fini alle Regionali, quasi imposta al Cavaliere che le avrebbe preferito l'imprenditrice Luisa Todini, la Polverini è stata poi piantata dal presidente della Camera nel momento più difficile della campagna elettorale. Ed è stata trascinata alla vittoria da Berlusconi e dall'apparato alemanniano, anch'esso inizialmente tiepido. Il risultato è che con Alemanno prima e la Polverini dopo, Berlusconi (e non Fini) si è potuto fregiare della conquista della Capitale e del Lazio, città e regione strategiche per mille motivi. A loro volta però sia il sindaco sia la governatrice hanno bisogno di un governo stabile, di un Pdl forte, e di buoni rapporti con l'establishment del Nord, compresa la Lega. Ed entrambi sono ora assai preoccupati dallo scontro. Il sindaco ha ereditato dalla sinistra un debito certificato dalla Ragioneria dello Stato all'aprile 2008 in 9,7 miliardi, tra passivi finanziari ed impegni programmati. Altri uno-due miliardi sarebbero frutto di contenziosi persi o quasi. Un ulteriore miliardo e mezzo sono gli oneri finanziari sulla contabilità corrente. In questa situazione non solo non si mantengono gli impegni elettorali, ma non si governa neppure l'ordinaria amministrazione; figuriamoci una capitale. Giulio Tremonti, che già da prima le elezioni aveva ricucito i rapporti con Alemanno, ha consentito un'operazione che trasforma il pregresso in una sorta di "bad bank", liberando la gestione ordinaria, aggiungendovi nel 2009 una dote di 500 milioni annui, insufficienti a pagare i fornitori e le rate dei muti (565 milioni). Dal 2010, con il federalismo fiscale, Roma riceverà dallo Stato i beni demaniali che dovrà valorizzare. Non solo caserme e depositi Atac, ma terreni e beni paesaggistici da sfruttare con un giusto equilibrio tra ambiente e sviluppo. Quanto alla Regione, anch'essa commissariata, il debito sanitario è egualmente di 10 miliardi, dei quali la Polverini dovrà rinegoziare il rientro oggi triennale. In questa situazione gli ultimi dati del ministero dell'Economia in vista dell'attuazione – a giugno – dell'autonomia impositiva degli enti locali rivelano che il Lazio è sorprendentemente una regione virtuosa: copre con imposte proprie (addizionali Irpef e Irap, e tasse universitarie) il 49,5 per cento della spesa pubblica, oltre quattro punti in più della media nazionale, un po' sotto a Lombardia, Veneto e Piemonte, ma molto meglio di Toscana, Emilia e soprattutto Umbria (29,6) portate ad esempio di buona amministrazione. Se il federalismo partirà avendo come benchmark, cioè riferimento, la situazione esistente – la media di copertura è il 45,6 per cento –, come dote l'attribuzione del demanio, e se come pare Tremonti lascerà a comuni e regioni mani più libere nell'imporre e ridurre tasse e ritagliarsi una fetta di Iva, Alemanno e la Polverini avranno una grande opportunità, anche per mostrare quanto valgono come amministratori. I calcoli ministeriali evidenziano che già ora, senza dismettere caserme e terreni, il Lazio potrebbe ridurre le tasse di 90 milioni l'anno, e offrirne 200 in più come servizi ai cittadini. Naturalmente c'è il debito da gestire; ma è anche vero che tanto maggiore sarà la capacità di attrazione per imprese, capitali, investimenti, università e sanità di eccellenza, tanto migliore sarà anche la possibilità di autofinanziarsi. Non si tratta solo di cifre aride e buone intenzioni: è pura politica. Che richiede accordi e consenso, cosa assai diversa dal piegare il ginocchio. Ma a questo punto c'è da domandarsi: Fini lo sa? Quesito non irrispettoso, visto che dall'ex serbatoio di An viene la classe dirigente capitolina, e visto che a quel mondo quardano comunque poteri vecchi e nuovi dell'imprenditoria e della finanza nazionale. Lo sa Fini, oppure la sua attenzione è distratta dal gran lavorìo di fondazioni più o meno neocentriste che hanno sempre Roma per base e palcoscenico: dalla sua a quelle di Francesco Rutelli e Montezemolo? Iniziative degne per scrutare il futuro. Nel frattempo però occorre pensare al concreto e al presente.