Tenetevi forte.
Aveteletto bene: «Serve un'agenda che chiarisca il nostro sistema di idee». Ecco a che punto è la notte dei Democratici. Qui non si tratta di una lunga marcia, di una traversata del deserto o di una ritirata in montagna. Mancano proprio le carte, le bussole, i sestanti, le triangolazioni stellari per affrontare un qualunque cammino verso il 2013. Dopo l'ennesima sconfitta alle urne la «road map» del segretario indica il grado zero della strategia: e dunque, mentre ci si arrovella sull'"impronta federale" da dare al partito, e mentre Marini manda a dire a Prodi che è «una follia» tout-court la proposta dell'ex premier di attribuire ai dirigenti locali le funzioni di "grandi elettori", si capisce solo che è alle viste l'incubo imperituro del confronto interno, del blablabla, del pissipissi, delle verifiche, della discussione, insomma di quella cosa lì. Quella che faceva inorridire l'attore morettiano di "Io sono un autarchico": «No, il dibattito no!». Un urlo che avrebbe potuto essere liberatorio e salvifico, se la sinistra l'avesse accolto come un manifesto programmatico e non come una chicca da cineclub. Il dibattito: quello evocato quasi con lussuriosa ferocia nei film brillanti di ogni decennio. Dal Fantozzi che bollava la "Corazzata Potjomkin" come una «cagata pazzesca», tra l'esultanza dei suoi sodali, a quell'altra fulminante trovata in "Ferie d'agosto" di Virzì, dove il praticone romano marchia a fuoco il birignao radical-chic del milanese: «Voi intellettuali vi atteggiate tanto, parlate così sofistici state sempre ad analizzà, a criticà, a giudicà...ma la verità è che non ce state a capì più un cazzo...ma da mò!». Come dirlo meglio? Il dibattito: quel che serve per nascondere l'evanescenza di un partito che «un senso non ce l'ha». Eppure Vasco, l'idolo di Pigi, l'aveva cantato forte e chiaro. Ma l'altro se n'era andato a Sanremo, ad ascoltare nuovi hit da classifica. Ora Bersani cerca l'agenda, e non sarà semplice. Perché tanto, in quel che resta della sinistra, il dibattito non serve a trovare la «mozzzzione d'ordine», ma a spaccare l'atomo politico in frammenti di archeo-ideologia neutralizzata dal pragmatismo e disinnescata dallo scudo spaziale del Cav. Il dibattito, di solito, prelude a una divisione irrimediabile: incombe sempre una scissione, un simpatico vaffa tra ex compagni che non sanno più a quale rivoluzione ispirarsi. Quand'era cominciato tutto questo? Sì, d'accordo, quasi novant'anni fa a Livorno: ma i comunisti che si separavano dai socialisti avevano almeno da rimboccarsi le maniche sui "21 punti di Mosca", mica sul bloc-notes vuoto di Bersani. E i due che guidavano i proletari verso l'Internazionale non si chiamavano Del Bono o Manciulli, ma Gramsci e Bordiga. Altri tempi: come quelli sinceramente eroici di Berlinguer che va a Mosca nel '76, e di fronte a cinquemila mammozzi dell'Impero rosso riuniti a Congresso, tutti presi a baciarsi sovieticamente in bocca o ad applaudire con quel moto verticale delle mani che tanto ricordava un bonobo in amore, imperniò il dibattito su un concretissimo «Arrivederci Pcus, noi proviamo con l'Eurocomunismo». Beh, chapeau. Ma da quel trionfo si generarono solo guai: perché il leader del Pci fu accusato di revisionismo, e nelle scuole e nelle fabbriche il dibattito virò sull'extraparlamentare spinto. Assemblee e collettivi fra dazebao, megafoni, trench dei capi fighetti, gli eskimo dei barbudos, le tute blu, le chiavi inglesi. «Cioè, compagni, voglio dire anch'io la mia, mi iscrivo a parlare, non fate i fascisti», strepitava quello del gruppuscolo mini-mini-mini del partito dei lavoratori marxisti-leninisti-maoisti di contrapposizione troskista, che contava due iscritti ma invocava la «democrazzzia del confronto». Tristemente, dal grottesco dell'«io-sono-più-puro-e-ti-epuro» (la profezia di Nenni), si passò alle P38 e a tutto quel che di funereo coprì, come una caligine di piombo, le allucinazioni del politichese. Non se ne uscì più: e vien da ripensare alle lacrime di Occhetto alla Bolognina. Chissà se, con la testa china sullo scranno dopo l'inumazione del Pci, pensava: «Che cazzata che ho fatto». D'altra parte, come sarebbe stato possibile mettere d'accordo i «miglioristi» di Napolitano e Macaluso, persuasi di perfezionare il capitalismo senza distruggerlo, con i dalemiani e i vecchi granitici ingraiani? Quattro anni di elucubrazioni solo per cambiare il nome, fino alla svolta dell'89, tra centralismo democratico, socialdemocrazia, alternativa. E solo per partorire un restilyng naturalistico-arboreo, dalla Quercia all'Ulivo, via gradatamente falce e martello, e mettiamoci la rosa, e poi il Pds che perde quella "P" iniziale, che fa pensare a troppe cose e nessuna, e attenti al "correntone" che fa rabbrividire la "destra" di Veltroni e Fassino. Una caciara che non finiva più, e intanto il Cavaliere scendeva in campo. Idee non confuse, un inno pop, si parla alla pancia e al cuore della gente mentre la nomenklatura rossa si sfianca a cercare la quadra. Sono passati sedici anni. Berlusconi è lì. Bersani pensa a «un'agenda che chiarisca il nostro sistema di idee». Sulla copertina dell'"Espresso" spiccano le foto dei candidabili per la leadership Pd 2013. Tra loro, lo scrittore Saviano, l'arruffapopoli Grillo, la pasionaria Bindi, e quel Vendola che era stato rinnegato per la tenuta della Puglia. Urge dibattito. Iscrivetevi, compagni.