Nucleare ricco per il Lazio
Il 9 aprile il piano nucleare italiano farà a Parigi un altro passo avanti con l'accordo tra Areva, colosso francese delle centrali e titolare della tecnologia di terza generazione Epr, e l'Ansaldo, azienda controllata dalla Finmeccanica. La nuova giunta di centrodestra del Lazio farà bene a drizzare le orecchie per una serie di motivi. Il principale è che il nucleare costituisce per la regione un'opportunità sotto molti aspetti, e non un problema com'è stato presentato in campagna elettorale. Vediamo perché. La Lega vittoriosa presenta il conto: sfrondando il politichese, ciò che sta a cuore al Carroccio è che si applichi sul serio la riforma federalista. Ad iniziare dalla parte fiscale. A giugno dovranno essere approvate le deleghe per attribuire alle regioni l'autonomia impositiva: una quota dell'Iva e dell'Irpef sarà trasferita dallo Stato alle amministrazioni locali. Il Lazio ha per ora le mani legate: non può ritagliarsi imposte a propria misura, visto che le addizionali sono già al livello massimo a causa del dissesto sanitario. Né può ottenere dallo Stato un'Iva agevolata, mentre la Regione chiede di rinegoziare le scadenze del debito sanitario ed il Campidoglio ha già ottenuto la separazione dei debiti ereditati da Francesco Rutelli e Walter Veltroni. Come impedire che il federalismo si trasformi da noi in un meccanismo punitivo? Un percorso passa appunto per il sì al nucleare. Governo ed Enel si sono impegnati ad applicare in Italia, a comuni e province che accetteranno di ospitare i siti, benefici simili a quelli già attuati in Francia o in Giappone. Flamanville è la cittadina della Normandia dove l'Edf (l'ente elettrico francese alleato dell'Enel) sta costruendo un reattore di nuova generazione, in una centrale che ne ospita già due convenzionali. Il sindaco socialista ha ottenuto sgravi sulla «Taxe professionnelle» – la nostra Irap – mentre le industrie finanziano porti turistici, una riserva naturale, strade e giardini. Stessa cosa nel comune di Siouville, amministrato dalla destra di Jean-Marie Le Pen. Non solo. Ogni centrale italiana darà lavoro ad oltre 2.500 persone per i cinque anni stimati per la costruzione, e impiegherà poi direttamente 500 tecnici, più il personale dell'indotto. Considerando i 60 anni di vita dell'impianto e l'elevato valore aggiunto, si tratta di insediamenti che valgono non meno di una Termini Imerese; o, per restare nel Lazio, che hanno prospettive più certe della Fiat di Cassino. Questo per l'occupazione. Quanto alle aziende, il costo di ogni centrale è stimato in 4,5 miliardi, metà dei quali destinati alle infrastrutture convenzionali. Si tratta di oltre due miliardi di appalti spalmati su cinque anni. Il 19 gennaio la Confindustria ha ospitato una conferenza delle aziende interessate. Ben 33, il dieci per cento del totale, hanno base o interessi prevalenti nel Lazio: dalla Astaldi alla Salini tra i costruttori, a grandi gruppi dell'engineering come Maire Techinimont fino ad imprese più piccole ad alta specializzazione. Più Eni e Finmeccanica, romane magari più di nome che di fatto. Non è tutto. Le centrali non saranno pagate dallo Stato, e quindi i cantieri non dipenderanno dalle aleatorie disponibilità del Tesoro (caso mai dal sì o no delle popolazioni); i costi saranno per due terzi di Enel ed Edf, e per il resto delle aziende capocommesse in cambio di forniture elettriche pluridecennali a prezzo scontato. Il governo invece con il decreto del febbraio scorso riconosce «a popolazioni, imprese ed enti locali» benefici fiscali simili o maggiori di quelli di Flamanville (e sempre ponendoli a carico dei privati coinvolti): «Concretamente - dice il decreto - verrà consentita la riduzione della spesa energetica dei consumatori finali del territorio interessato, della Tarsu, dell'addizionale Irpef, dell'Irpeg e dell'Ici». Ultima postilla: difficilmente l'Acea, reduce da una guerra azionaria e bisognosa di ridarsi una missione (e profitti), vorrà restare fuori da un business che per la parte non di competenza dell'Enel vede già schierate le ricche ex municipalizzate di Lombardia ed Emilia. E così, riteniamo, il suo maggiore azionista privato, Francesco Gaetano Caltagirone. E se le aziende corrono dove c'è profumo di affari, al di là del colore politico degli amministratori, non si capirebbe perché una regione come il Lazio debba stare a guardare. Dalla Puglia di Nichi Vendola ci aspettiamo un no senza sì e senza ma. Dall'Emilia di Pier Luigi Bersani un rifiuto politico, anche se coop e municipalizzate sono già in prima linea. In fondo però le giunte emiliane non hanno grandi problemi di bilancio. Per il Lazio di Renata Polverini e Gianni Alemanno perdere questa occasione sarebbe invece incomprensibile: a meno che non si voglia considerare il «giuramento» di piazza San Giovanni un mero rituale.