Gli smemorati
Un anno dopo. Le lancette dell’orologio non si sono fermate il 6 aprile del 2009 a L’Aquila. Nonostante i molti avvoltoi che aleggiano sulla città e sul suo desiderio di rinascita, l’emergenza è stata affrontata bene e i piani per la ricostruzione vanno avanti. Si è cercato in tutti i modi di gettare fango su un’operazione di soccorso e messa in sicurezza ciclopica. Ma la forza dei fatti è stata più forte della bassa propaganda che ha cercato di far dimenticare l’entità di quel che è accaduto. Vedere l’opposizione avventurarsi in questa campagna orchestrata dai corvi è stato sorprendente e amaro. Il clima di concordia nazionale che s’era creato subito dopo la tragedia è stato archiviato per bassi interessi di bottega elettorale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la sinistra ha perso le elezioni anche in Provincia dell’Aquila. La forza dei fatti. Avevano fatto male i conti e cancellato dalla loro mente cos’era successo subito dopo la prima scossa. Nelle prime 48 ore Guido Bertolaso e i suoi uomini della Protezione Civile avevano messo in campo uno sforzo senza precedenti per il nostro Paese: circa 28mila persone assistite subito, un numero che tra aprile e maggio svettava oltre quota 67mila. Era così facile tener conto di tutto questo prima di far partire le carriole. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Nessuno ricorda che 35.690 persone erano accolte in quasi seimila tende e altre 31.769 alloggiavano in hotel e case private. Oggi non ci sono più tendopoli e neppure i freddi e orribili container dell'Irpinia o dell'Umbria. All'Aquila lo Stato s'è mosso subito e con efficacia. In Umbria c'è chi aspetta ancora una casa, in Abruzzo - piaccia o meno - le case ci sono e chi le chiama con una punta di disprezzo «casette» non comprende lo sforzo immane - anche in termini finanziari - che è stato fatto finora. Da alcune parti la ricostruzione non finisce mai, in altre sarà affrontata allontanando per sempre un male dell'Italia: il provvisorio che diventa definitivo. Il governo ha stanziato 8,6 miliardi per la ricostruzione in Abruzzo. Non è un'impresa che si compie dalla sera al mattino. «Ci vorranno anni», come ha detto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. É la lingua della sincerità contro quella dell'illusione e della propaganda più cinica che abbiamo visto in azione nelle settimane che hanno preceduto la campagna elettorale. Strumentalizzare in quella maniera la tragedia è stato un errore colossale. Il simbolo di quell'opera, Guido Bertolaso, è stato infangato e così facendo si è incrinata un'icona dell'Italia che funziona. In nome di che cosa si è andati avanti allegramente in questa demolizione furiosa? Un Paese che non sa conservare e valorizzare i suoi esempi positivi a lungo andare finisce per esaurire ogni carica positiva. E i giovani ci guardano e sempre più spesso non capiscono quale sia la rotta da seguire. Gianni Letta ieri ha chiesto di «ritrovare lo spirito unitario di armonia e di condivisione che caratterizzò i primi giorni dopo il terremoto quando, tutti insieme, abbiamo cercato di dare sepoltura ai morti e soccorso ai vivi, affrontando, senza spirito di parte, l'emergenza di una tragedia così grande». Parole sagge. Sarebbe stato altrettanto serio proseguire su quella strada e non lasciarsi sviare, non cercare di mandare a carte quarantotto un progetto lungo e difficile, una ricostruzione che deve essere una e basta e non una, nessuna e centomila. Ma l'Italia continua con ostinazione a voler essere quella dei guelfi e dei ghibellini. Nell'anno in cui celebriamo il 150mo anniversario dell'unità, il terremoto dell'Aquila è un banco di prova per misurare il nostro carattere, la nostra identità nazionale. Nel 2011 celebriamo un percorso che s'era chiuso nel 1861, dopo le guerre contro gli Austriaci e la spedizione dei mille garibaldini in Sicilia. Un Paese unito sulla carta geografica, passato dalla monarchia alla Repubblica, ancora oggi si ritrova diviso in fazioni l'un contro l'altra armate. Errare è umano, perseverare è diabolico ma alla fine conduce dritti alla sconfitta. Il presidente del Consiglio ha portato a L'Aquila un G8 che è diventato un simbolo della volontà di provare a ricostruire le relazioni internazionali su basi diverse da quelle delle classiche potenze industriali che fin qui hanno guidato la corsa. Pochi ricordano che il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama è stato sui luoghi del terremoto. Gli smemorati de noantri hanno sbianchettato l'uomo più potente del mondo tra le macerie, in maniche di camicia, con il suo stile inconfondibile, che dice: «Il governo italiano ha dimostrato una forte leadership». L'idolo dei democratici di casa nostra, di fronte al dolore e all'impegno degli italiani, diceva una verità che si è tentato di cancellare in tutti i modi. Oggi la storia concede un'altra occasione a chi ha commesso l'errore di buttare alle ortiche l'esperienza di condivisione che era nata subito dopo il terremoto. Aggiungere altro sale su quelle ferite a me sembra impossibile. Eppure le vestali dell'odio continuano ad agitarsi, a dare consigli mai gratuiti a mostrarsi come portatori di verità e soluzioni che non stanno né in cielo né in terra. Sarebbe facile superare questo spirito di fazione, cercare un minimo di bontà e spirito costruttivo. Ma le bugie hanno le gambe corte e noi abbiamo una certezza: L'Aquila tornerà a volare.