L'avventura del Pdl un anno dopo
{{IMG_SX}}Che follia il Pdl. Il primo a pensare che fosse un pazzia fu proprio il fondatore, Silvio Berlusconi, spalleggiato dal co-fondatore, Gianfranco Fini. È passato un anno dalla fondazione del partito. Un anniversario che non è stato celebrato, in parte dimenticato. Probabilmente a torto. Un congresso che si proponeva di aprire le porte a una nuova Italia, ai giovani e alle donne, di rappresentare la maggioranza degli italiani. Certo sarebbe facile fare oggi la cronostoria delle liti soprattutto tra i fondatori. E invece a rileggere i discorsi di allora ci si rende conto come sia tutto già scritto, non ci siano accordi da siglare tra Berlusconi e Fini. Basta che tutt'e due riprendano le loro parole e passino ai fatti. Disse il Cavaliere: «Gianfranco mi ha riconosciuto una "lucida follia". Ha colto nel segno. Lucida follia è un'espressione di Erasmo da Rotterdam che è a me molto cara. Secondo Erasmo "le decisioni più sagge, le decisioni più giuste, la vera saggezza, non è quella che scaturisce dal ragionamento, non è quella che scaturisce dalla mente, ma è quella che scaturisce da una lungimirante, visionaria follia"». Certo il clima è cambiato. Quell'assise fu aperta dalla più giovane deputata, Anna Grazia Calabria. Che oggi analizza: «Abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi. Il principale era la stabilità del governo e quella il Pdl l'ha indubbiamente assicurata. Basta vedere le riforme varate: scuola, università, pubblica amministrazione. Vado avanti?». Ecco, il punto. Andare avanti. La missione più importante, spiegò il premier, era ammodernare lo Stato: «Ieri Gianfranco - disse il Cavaliere un anno fa - ha ripetuto la bella metafora del calabrone e della farfalla: "L'assetto istituzionale dello Stato" egli ha detto "è come un calabrone: riesce ad alzarsi in volo ma il suo volo è quasi immobile. È tempo di passare dal calabrone alla crisalide, e che dalla crisalide esca finalmente la farfalla di una nuova Italia". Caro Gianfranco e cari amici, quella farfalla deve spiccare il volo». Silvio ricordò che la riforma il centrodestra già l'aveva fatta. Ed elencò i punti cardine: devoluzione, decentramento, riduzione dei parlamentari, rafforzamento dei poteri del premier, l'introduzuione della sfiducia costruttiva. Poi tutto venne annullato dal referendum «dopo una campagna strumentale e manipolatoria con la quale la sinistra ci accusò addirittura di attentato alla democrazia». Questo era il merito. Berlusconi si soffermò anche su una questione di metodo. Disse che venne offerto alla sinistra di fare le riforme assieme: «Ci venne risposto di sì. Ma dopo pochi giorni quel sì si trasformò in no. La conclamata buona volontà costituente degenerò in una campagna di insulti e di ridicole accuse di regime nelle piazze, sui giornali, in televisione. È evidente che riforme di questa portata andrebbero fatte in due, maggioranza e opposizione. È ancora più evidente che, dopo queste esperienze, c'è molto da dubitare sulla serietà della nostra controparte». Se Berlusconi si rilegesse s'accorgerebbe che disse: «La verità è che, così come è, lo Stato non funziona più. È lento e in costante ritardo nel dare le risposte appropriate. Lo era in tempi di ordinaria amministrazione; lo è drammaticamente oggi in situazioni di emergenza». Dunque, non c'è più altro tempo da perdere.