Nozze gay, il dilemma della Consulta
«Sì lo voglio» è il grido di battaglia degli omosessuali italiani che pretendono di sposarsi in Comune, con un rito civile dentro una sala comunale, possibilmente davanti al sindaco con la fascia tricolore. E che ieri è rimbalzato dalla sede del Palazzo della Consulta al Quirinale a piazza Montecitorio davanti alla Camera dove in serata si sono ritrovati, mano nella mano, in una fiaccolata propiziatoria. La Corte Costituzionale era chiamata a pronunciarsi, tra gli altri, sul ricorso presentato da tre coppie gay contro le decisioni prese dal Tribunale di Venezia e dalla Corte d'Appello di Trento di giudicare legittimo il rifiuto di procedere alla pubblicazione di matrimonio per coppie formate da individui dello stesso sesso, dopo la richiesta presentata nei comuni di Venezia e di Trento. L'udienza mattutina è trascorsa nell'ascoltare le posizioni degli avvocati delle coppie gay e dello Stato. I primi hanno parlato di discriminazione sessuale, i secondi ribadito che l'argomento è di competenza del legislatore, ovvero del Parlamento. E questo perché la Costituzione italiana ribadisce che per sposarsi è necessario che i due contraenti siano di sesso diverso. È probabile che la decisione della Consulta slitti di qualche giorno: «Da notizie raccolte in ambienti ben informati, la Corte Costituzionale rimanderebbe alla prossima seduta del 12 aprile» ha detto ieri Aurelio Mancuso, ex presidente di Arcigay. La questione dei matrimoni gay è comunque esplosa in quest'ultimo scampolo di infuocata e folle campagna elettorale. «Un altro evergreen» si potrebbe dire parafrasando la Bonino che in questo modo aveva liquidato il monito del «signor» Bagnasco contro l'aborto e l'invito agli elettori a preferire candidati contrari. L'attesa del mondo omosessuale, però, è sempre più febbrile. «Comunque vada sarà una decisione storica» sottolineano i coordinatori del Comitato nazionale «Sì lo voglio». Ai quali, naturalmente, non sfugge il fatto che la loro rivendicazione «rischi» di essere strumentalizzata politicamente. «La questione dei matrimoni gay non può essere oggetto di campagna elettorale» hanno infatti sottolineato Imma Battaglia, Maurizio Cecconi, Enzo Cucco, Paolo Patanè e Francesca Polo. Lanciando, poi, una freccia avvelenata: «Contrariamente a quanto fa la Cei sull'aborto. Si tratta di una questione di diritti e di eguaglianza aperta da 40 anni a cui non è mai stata offerta risposta». Dunque il messaggio è chiaro: i diritti degli omosessuali che vogliono sposarsi tra di loro sono più importanti e impellenti della questione dell'aborto (anzi il fatto stesso che «subdolamente» la Chiesa ne abbia parlato significa che poi, nel prossimo futuro, voglia attaccare la legge 194). Tutto questo tam tam, comunque, è grasso che cola per la galassia gay. C'è poi Franco Grillini, ex parlamentare e storico difensore dei diritti degli omosessuali, dal pulpito di Gaynet non ha dubbi: «Qualunque sia l'orientamento della Corte costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, già la discussione di oggi rappresenta un fatto di rilevanza storica». E si punta il dito sul fatto che «una fetta di cittadini è discriminata». A questo punto l'altra metà della torta, i cittadini comuni, è legittimata a chiedersi come sia possibile che con tutti i problemi seri e le controversie più intricate che arrivano al cospetto della Corte Costituzionale sia approdato pure l'affaire matrimonio gay? La soluzione dell'enigma potrebbe venire, a questo punto, solo dai diretti interessati, i giudici della Consulta. A loro spetta di districare le matasse giuridiche (che in effetti, in questo caso, sembrano abbastanza semplici) e di riportare l'intera vicenda alla sua giusta dimensione.