Il clamoroso autogol di Pier Luigi
È tornato l’uomo nero. Ogni volta che la parola sta per passare al popolo succede che il capopopolo della sinistra accusi il capopopolo della destra di essere un pericolo per il Paese. Occhio, cari lettori de Il Tempo, a una settimana dalle elezioni si sta ricostituendo il Comitato di Liberazione Nazionale, i fascisti son tornati e Berlusconi non si chiama più Silvio ma Benito. Se fossimo un Paese serio ci sarebbe perfino da ridere, purtroppo la faccenda è piuttosto grave perché rivela ancora una volta i tic e i riflessi pavloviani dell’opposizione e dei suoi salotti. Cominciamo proprio dal settore divani e poltrone. Ieri la lettura del sermone domenicale di Eugenio Scalfari su Repubblica era il più alto magistero in materia di allarme democratico. Dopo aver parlato con Io, il Fondatore ha deciso anche lui di salire in cattedra e istruire il popolo. Il suo sermone è esemplare. Berlusconi viene descritto come "grande narciso, grande venditore, grande bugiardo", un satanasso che "vuole che tutto sia suo" e dunque "l’obiettivo primario è il presidenzialismo, l’investitura popolare e plebiscitaria che faccia piazza pulita di tutte le autorità di controllo e di garanzia". La penna di Scalfari, colta da febbre altissima, vaneggia e svirgola fino a dipingere "lo Stato assoluto, il potere assoluto". Manca solo la descrizione dei carri armati nelle piazze con Ignazio La Russa che sulla torretta del cingolato urla al megafono: "Digiamogelo!". Attenzione, Scalfari non va mai sottovalutato: non azzecca quasi mai una previsione politica e fulmina tutti quelli che abbraccia, ma nel preparare il campo ai ribaltoni e alle fughe in avanti è maestro. I fumi e i lumi rivoluzionari sono il suo terreno naturale. Dunque il suo editorialone è da decrittare come una volta usavano fare i cremlinologi. Che cosa succede? Molto semplice: le inchieste probabilmente non ridurranno in cenere Berlusconi. E questo per l'opposizione è un problema. Senza l'aiuto della magistratura difficilmente il Cavaliere potrà essere disarcionato. Senza i colpi di maglio delle toghe sarà impossibile una manovra di Palazzo per cambiare il governo in corsa e mettere in quel di Palazzo Chigi lo spaventapasseri di turno. No toga no party. Con le polveri bagnate e il fucile inceppato, a Repubblica non resta che fare sedute spiritiche ed evocare fantasmi. Ecco dunque l'arma segreta del cenacolo progressista: la dittatura di Silvio. Non riesce a far chiudere Santoro, tutti gli dicono sì e poi nessuno fa quello che ordina, ma per Scalfari e compagni di terrazza e tartina il Cavaliere è la Vera Minaccia e il presidenzialismo la sua Arma Segreta. Basta leggersi lo splendido articolo del nostro Gennaro Malgieri per capire quanto profondo sia questo tema politico-istituzionale nel centrodestra italiano. È da vent'anni che nel discutere di riforme si tocca il tema del presidenzialismo nelle sue varie forme. Nella stessa commissione bicamerale presieduta da Massimo D'Alema si affrontò l'argomento. Non era un collegio composto da golpisti quello di ieri e non ci sono nostalgici del Ventennio nel Parlamento e nella maggioranza di oggi. Chi vuole cambiare lo Stato in meglio deve porsi il problema del funzionamento dell'esecutivo in una società iperveloce e connessa. Non siamo ai primi del Novecento, non c'è la repubblica di Weimar. L'Europa è unita, il mondo è cablato e i gruppi sociali si ritrovano nel networking. Fanno sorridere i soloni con il parruccone ottocentesco che discettano del mondo contemporaneo senza averlo mai frequentato davvero o al massimo l'hanno guardato accigliati dall'uscio del piano nobile. La destra italiana nel presidenzialismo ha riposto speranze e ideali. Non sono la scoperta dell'ultimo istante o un progetto di convenienza e opportunismo politico. Su questo punto, sarebbe interessante sentire le opinioni di Gianfranco Fini. La biografia politica del Presidente della Camera ci restituisce il profilo di un presidenzialista. Lo è ancora? Al momento, ciò che possiamo toccare con mano è che, purtroppo, i veri conservatori, gli alfieri della restaurazione ancora una volta stanno a sinistra. In realtà Scalfari dà per così dire, un vestito ideologico-culturale alle sparatone che fa Tonino Di Pietro e alle freddure di Pier Luigi Bersani. Il primo non sa più quale dittatore scomodare per descrivere il terribile regime di Berlusconi: Videla, Hitler, Saddam Hussein, Mussolini. Tonino non si risparmia (e ci risparmia) con le sue finissime analisi storico-politiche. Con l'orecchio di Genchi e il capello di De Magistris si completa la sezione trucco e parrucco dell'Italia dei Valori. Ma fin qui non c'è niente di sorprendente. Stupefacente è il segretario del Pd nelle sue considerazioni che via via stanno diventando sempre più impolitiche. Alla vigilia della manifestazione del Pdl in piazza San Giovanni a Roma, Bersani aveva detto: «Speriamo che sia una piazza Costituzionale». E la frase già puzzava di pensiero sovietico. Ventiquattr'ore dopo si è superato sentenziando: «Berlusconi è un capopopolo». E di grazia, cosa dovrebbe essere un leader politico? Un capotreno? Ora mettetevi nei panni di Berlusconi. Bersani si ritrova a corto di fondamentali retorici, gli passa la palla e a lui non resta che fare gol a porta vuota. «Non mi dispiace essere un capopopolo, perché questo è un partito nato dal basso» risponde lesto il Cav, proprio con il sorriso di chi conosce il suo popolo. Al posto di Bersani ci andrei cauto nel chiedere il confronto in tv con uno come Berlusconi. Nella vita si può avere sprezzo del pericolo, ma non del ridicolo.