Piazze in saldo per un'autentica intimidazione
Dovesi sentono nitide le urla dei tifosi durante le partite di calcio. Ma, anche se non vi dovessero materialmente arrivare, quelle di Piazza del Popolo suoneranno ugualmente nell'altra piazza romana come grida di arbitraria pressione, se non di vera e propria intimidazione, nei riguardi della suprema magistratura amministrativa, chiamata ad occuparsi del decreto sulle liste proprio domani. A meno che al Consiglio di Stato, magari per sottrarsi proprio a questa sconveniente coincidenza, non si decida di anticipare ad oggi il verdetto sulla controversa partecipazione dei candidati del Pdl di Roma e provincia all'elezione del nuovo Consiglio regionale. Sia che venga confermata, sia che venga all'ultimo momento evitata dai giudici, la sola possibilità che si sovrappongano domani le due piazze rende ancora più risibile di quanto già non fosse la demonizzazione immediatamente fatta a sinistra della manifestazione romana annunciata l'altro ieri da Silvio Berlusconi per il 20 marzo, quando non vi saranno più ricorsi da esaminare a ridosso delle urne del 28. «Berlusconi aizza la piazza contro giudici, radicali e sinistra», gridava ieri Il Fatto Quotidiano. Evidentemente il discrimine tra una piazza e l'altra ciò che le rende a sinistra e nei suoi dintorni buone o cattive, accettabili o ripugnabili, è la partecipazione o meno di Di Pietro. Che ci sarà eccome domani sotto la terrazza del Pincio, parlerà eccome per arringare il pubblico, nonostante il segretario del Pd in un sussulto insieme di paura e di buon senso abbia cercato di dissuaderlo. Se poi Di Pietro non si lascerà scappare l'occasione, come già gli è capitato di fare in piazza altre volte, per attaccare a modo suo anche il presidente della Repubblica, i suoi alleati ricorreranno alle solite, innocue e quindi inutili dissociazioni, all'insegna dell'altrettanto solita ipocrisia. È la stessa ipocrisia, del resto, che ha ispirato l'opposizione del Pd alla legge in attesa di promulgazione, che risponde ad un diritto già riconosciuto da altre norme in vigore del codice di procedura penale, indicate nello scorso autunno dalla Corte Costituzionale come surrogatorie del rifiutato lodo Alfano, che sospendeva i processi a carico delle quattro più alte cariche dello Stato per tutta la durata del loro mandato. Ma sono norme abitualmente disattese a Milano quando l'imputato è Berlusconi, com'è accaduto anche nella scorsa settimana contestando come impedimento una seduta del Consiglio dei Ministri. È la giustizia di rito ambrosiano, bellezza.