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"Il 7 agosto Simonetta non mi volle in ufficio"

Simonetta Cesaroni uccisa con trenta coltellate il 7 agosto del 1990

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«Alla mia domanda se avesse avuto molto da fare all'associazione, Simonetta rispose che era tutto sotto controllo e che se la sarebbe cavata benissimo da sola, senza bisogno di aiuto alcuno. Ricordo che, per dare spinta al lavoro, le dissi che avrei potuto fare una scappata da lei». È Salvatore Volponi a raccontare la mattina di quel maledetto 7 agosto del 1990. Lo fa attraverso le pagine di un libro a sua firma, pubblicato in poche copie, che nel 2004 non trovò sufficiente spazio tra gli scaffali delle librerie. S'intitolava «Io, via Poma e... Simonetta».   Volponi racconta le ore trascorse con lei in via Maggi, poche ore prima della tragedia. Discutono di alcune pratiche da sbrigare il pomeriggio all'Associazione degli ostelli della gioventù di via Poma, dove la ragazza sarà trovata senza vita. Volponi insiste per andare nell'ufficio con la giovane. «"Non c'è bisogno che venga - disse con voce precisa la ragazza - sono sicura di farcela. Me la sono sempre cavata da sola, non capisco perché oggi dovrei avere bisogno dell'aiuto di qualcuno." "Posso dettarle i dati delle fatture per fare prima", dissi (Volponi disse, ndr). "No dottor Volponi, non si scomodi, le ripeto, posso tranquillamente farcela da sola", rispose decisa la ragazza. Insistetti di nuovo per vedere la sua reazione, ma lei, con voce infastidita e decisa mi fece capire che sarebbe stato meglio se non fossi andato in ufficio quel giorno». Il Volponi che scrive le memorie di quei giorni è un uomo sfinito. In preda ai demoni, come racconta lui stesso. L'omicidio di via Poma sembra averlo rovesciato in un incubo dal quale non riesce più a uscire: «Tenti di spiegare la tua angoscia, non trovi le parole, allora usi le mani quasi a rendere materiale il dolore che serra violentemente le mascelle, stringe i pugni. Il dolore del male oscuro non è una sceneggiata! Ti senti di merda, chi ti sta di fronte non capisce nulla, zero; il muro dell'incomunicabilità diventa insormortabile. Il male oscuro stringe il malato in una morsa mortale!». Del resto Salvatore Volponi confida di essere in cura per mali psicologici, tempo prima dell'omicidio: «Nel '74 il mio io si è infranto in mille pezzi. La malattia mi divorava. Uno psicanalista mi tormentava la mente». Era costretto a prendere pillole in continuazione. Le pagine del suo libro sono colme di dialoghi con «il vecchio», un personaggio creato dalla sua fantasia che dice di aver «incontrato» al policlinico Umberto I di Roma. Con lui parla delle sue ossessioni, di quanto Simonetta gli ricordava sua sorella Marisa. Una sorella che le procurava enorme gelosia e che descrive dalle «vistose forme». Volponi aveva forse messo gli occhi su Simonetta?, si chiede «il vecchio». L'uomo dice di no, di aver dato a Simonetta sempre del Lei, tranne che quella mattina del 7 agosto negli uffici di via Maggi. Nel suo libro descrive una ragazza silenziosa, poco aperta a confidenze. «Qualche volta si apriva con le amiche. Solo che un giorno - scrive - fece una confidenza a mia nipote che, per ragioni di lavoro, veniva spesso negli uffici di via Maggi. Un giorno Simonetta le rivelò con entusiasmo: "Sai ho conosciuto un nuovo ragazzo"».   «Ho avuto sempre la convinzione che celasse un segreto». È quel segreto che «il vecchio» vuole tirar fuori a Volponi: «Mi confidò che le piaceva ballare, stare con gli amici e non mi spiegò il motivo per cui il suo ragazzo glielo proibiva; per cui pur di soddisfare questa sua passione, la sera, quando lasciava il ragazzo, sfruttando la struttura dell'edificio dove abitava, dopo averlo salutato usciva da un'altra parte. Non mi chiedete chi l'aspettasse. Non me lo disse mai». Tra le pagine Volponi alterna la descrizione del suo dolore attuale al ricordo delle ultime ore prima del delitto. Racconta gli interrogatori con la polizia, il pressing psicologico, la fine di una vita familiare con moglie e figlio che fuggono da un uomo malato, ossessionato. Anche l'editore del testo, Dante Tataseo, raccontando gli incontri con l'autore, lo descrive come un tipo «profondamente turbato. Solo. Al di là di qualsiasi verità sembrava un uomo che aveva toccato il fondo». Nel libro il racconto di «quella tragica notte» si sofferma sul ruolo della portiera. Con il figlio e Paola arrivano in via Poma: «Entrati dentro tutti abbiamo cercato la portinaia e con nostra sorpresa abbiamo trovato, dentro uno scantinato, una donna sola, seduta su di una sedia, assorta, quasi assente. "Signora - le abbiamo detto quasi in coro - vorremmo salire al piano dell'associazione perché non riusciamo a trovare la ragazza che ci lavora. Siamo molto preoccupati perché non è una cosa solita". La donna all'inizio si è mostrata molto riluttante, cercando scuse banali, come il fatto che era tardi, di non sapere con precisione dove fosse quell'ufficio, ma la nostra insistenza riuscì a convincerla a farci salire». Quando arrivarono di fronte la porta dell'Aiag, la signora «aprì ma non volle entrare». Per Volponi, che questa mattina si presenterà nell'aula bunker di Rebibbia per testimoniare di fronte ai giudici della III Corte d'Assise, il ruolo di Pietrino Vanacore e di sua moglie è sempre stato sospetto. Come è sicuro che «Simonetta conosceva il killer». Un uomo «impotente e criminale. E l'impotenza l'ha reso omicida».  

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