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Vent'anni di ombre

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Delitto di Via Poma, il luogo dove è stata uccisa Simonetta Cesaroni

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È il giallo per antonomasia. L'omicidio di Simonetta Cesaroni è un delitto pieno di misteri che, dopo vent'anni non si sono ancora dissipati. Tutt'altro. Si infittiscono. Il suicidio, se tale è, di Pietrino Vanacore, il primo a essere indagato per quell'omicidio, non fa altro che ingarbugliare la vicenda. Decine di interrogativi non hanno avuto risposta. Alcune prove che si dissolvono. Altre appaiono come d'incanto dagli scantinati polverosi del tribunale di Roma e dagli armadi dell'Istituto di Medicina legale. Sette agosto 1990, in una Roma sorniona che si prepara a chiudere per ferie, l'omicidio di Simonetta Cesaroni risvegliò l'attenzione della città. La scoperta del delitto è il primo tassello del «giallo». Paola Cesaroni, sorella di Simonetta, non vedendola rientrare a casa per cena, la cerca. Il titolare della Reli Sas, Salvatore Volponi, sostenne di non conoscere il luogo dove Simonetta lavori. È questo è il primo buco nero. Trascorse più di un'ora di tira e molla, di urla e strepiti di Paola Cesaroni con Volponi prima che lo stesso riveli: Simonetta quel pomeriggio è andata a lavorare presso la sede degli alberghi della gioventù in via Poma 2, in Prati. Paola, accompagnata dal fidanzato, Antonello Barone, prelevò Volponi e suo figlio dalla loro abitazione e i quattro si diressero insieme nello stabile di via Poma. Qui, alle 23.30 circa, il secondo «giallo». Nessuno sembra avere le chiavi di quell'ufficio al secondo piano. Il portiere dello stabile, Pietrino Vancore non si trovava. La moglie Giuseppa De Luca, non aveva intenzione di consegnare le chiavi. Le verranno strappate di mano da un agente delle Volanti chiamato da Paola Cesaroni. Una corsa per le scale, la porta che viene aperta e il corpo senza vita di Simonetta, seminuda, nella stanza d'angolo, in fondo al corridoio. La ragazza presentava vistose ferite da taglio, ma intorno non c'era sangue. La scena del crimine non fu congelata e questo creerà altri problemi alle indagini. In tanti si affollarono in quella stanza e in quell'appartamento. E qualche dato importante probabilmente fu inquinato. A terra il corpo senza vita di Simonetta, innaturalmente disteso, a gambe e braccia divaricate, destò qualche dubbio agli investigatori. Tutto sembrava troppo studiato. Il pantacollant sparito. Gli slip scomparsi. Solo un top e il reggiseno da cui, dopo 19 anni, è stata trovata la traccia di Dna che inchioderà Raniero Busco, fidanzato allora di Simonetta. Il sangue pulito intorno al cadavere. La stanza linda. Tutto in ordine. Qualche sbaffo di sangue su una porta che verrà portata via dalla Polizia Scientifica. Gli stracci lavati e strizzati nel bagno dell'ufficio. Un lavoro accurato come solo una persona che lo fa d'abitudine sa fare. La pulizia della stanza, le reticenze della moglie. Il fatto che proprio quella sera non avesse dormito in casa, mise nel mirino degli investigatori della squadra mobile Pietrino Vanacore. Mai collaborativo. Sospetti i «suoi non ricordo», «non conosco», che riempirono i verbali. Pochi giorni dopo il delitto, il 10 agosto, il portiere viene posto in stato di fermo. Così Vanacore finì prima a Regina Coeli e poi a Rebibbia. A inchiodarlo il buco nel suo alibi. Vanacore sostenne di essersi assentato il pomeriggio del 7 agosto per andare dal ferramenta. Resta appesa una mezz'ora durante la quale nessuno ha visto Vanacore. Lui sostenne che era andato a comprare un seghetto circolare. Come quello usato dagli anatomopatologi. Contro lui anche alcune macchie di sangue sui pantaloni. Il Tribunale della Libertà definirà gli indizi non gravi e rimetterà in libertà il portiere che rimarrà comunque il primo sospettato. Sospetti che Pietrino e la moglie non fanno che aumentare. La prima sera in stato di fermo Vanacore avrà un improvviso ritorno di memoria e mise a verbale, alla Mobile, di aver visto un certo geometra Sforza «uscire dal palazzo con un fagotto sotto il braccio». La stessa versione fu confermata dalla moglie. Sembrò la vera svolta alle indagini. Ma, grazie anche all'interessamento dell'Interpol, il geometra fu rintracciato in Turchia dove dai primi del mese di agosto era in vacanza in caicco. E trenta persone lo testimoniarono. Un tentativo di depistaggio che convinse ancora di più gli investigatori che Vanacore «sapeva» e voleva «coprire qualcuno». Il gesto di oggi non fa che aumentare questi sospetti. Non confessa infatti, una confessione metterebbe nei guai la moglie. Denuncia il suo malessere e si uccide alla vigilia della chiamata al banco dei testimoni di un processo che in tanti speravano non si celebrasse più. Torniamo a quegli anni. Le indagini non si fermano dopo la scarcerazione di Vanacore.   Il giallo però si infittisce. Si parla sempre più insistentemente del fatto che l'ufficio dove Simonetta è stata uccisa fosse una copertura dei servizi segreti. E quasi a suffragare questa tesi ecco arrivare la testimonianza a sorpresa di tal Roland Voeller. Trascorsi da «fonte» dei nostri 007, di fatto piccolo truffatore. Voeller si fa vivo nel marzo del 1992 e afferma di sapere chi ha ucciso Simonetta Cesaroni. Il suo racconto ha dell'incredibile, ma trova udienza tra gli inquirenti. L'austriaco racconta che nel maggio 1990, durante una telefonata in una cabina telefonica, per un contatto è entrato in comunicazione con una donna anch'essa al telefono. Chiarito l'incidente, tra i due nasce un'amicizia. Lei è Giuliana Ferrara, da sposata si faceva chiamare Giuliana Valle perché è la ex moglie di Raniero Valle, il figlio dell'architetto 88enne Cesare Valle che risiede nel condominio di via Poma. Architetto che la sera del 7 agosto aveva ospitato il portiere. Giuliana confessa a Voeller di essere preoccupata poiché suo figlio Federico soffre per il divorzio e non mangia. Il pomeriggio del 7 agosto 1990 Voller e Giuliana Ferrara si parlano al telefono e lei mostra forti preoccupazioni per il figlio, che è andato a fare visita al nonno Cesare Valle in via Poma, ma non torna. La sera dello stesso giorno i due si parlano nuovamente, lei è sconvolta perché Federico è tornato sporco di sangue dappertutto e ha un taglio alla mano. Passano due anni di perizie sul Dna e udienze preliminari. Nel gennaio 1995 Federico Valle e Pietrino Vanacore vengono prosciolti. La storia non finisce. Una fitta serie di lettere anonime a giudici e giornalisti, apre nuove piste che però ben presto si arenano. Poi la nuova svolta scientifica. Il reggiseno recuperato nel fondo di uno scatolone all'obitorio rileva tracec di Dna. Il profilo corrisponde a quello di Raniero Busco il fidanzato di Simonetta. Quella notte tra il 7 e l'8 agosto era stato prelevato al lavoro della polizia. Messo sotto torchio. Presentò un alibi che nessuno sembra aver controllato. Ora è imputato e il processo in corso. Le prove però sembrano fragili. Il suicidio di Vanacore, testimone eccellente, getta altre ombre sull'intera vicenda.

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