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Via Poma, Vanacore: "Le mie ferite non si rimarginano"

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Pietro Vanacore, il portiere dello stabile di via Poma

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Era tornato subito al suo lavoro Pietrino Vanacore la mattina del 1 settembre 1990, il giorno dopo la scarcerazione. Dopo aver trascorso tre settimane a Rebibbia è tornato sul «luogo del delitto», il condominio di via Poma 2 dove faceva il custode. Di buon mattino era alle prese con la pulizia del cortile e delle aiuole. Ramazza e secchio, Vanacore, come se nulla fosse accaduto, aveva ripreso a spazzare. Salutava i condomini che entravano e uscivano. Distribuiva la posta nelle cassette delle lettere. Voleva dimenticare in fretta tutta quella vicenda. La moglie, Giuseppa detta Peppa, era più instransigente verso gli estranei sospettati di essere tutti giornalisti. Lui, il portiere titolare Pietrino Vanacore aveva sempre quell'aria distaccata, quasi gentile. All'uscita dal carcere di Rebibbia lo aspettavano fotografi e cameramen e un nugolo di giornalisti. Vanacore cercò di sfuggire all'assalto, ma poi a casa, presente il suo avvocato Antonio De Vita, si concesse alla stampa. «Mai vista Simonetta Cesaroni. Non lo ho mai vista di persona, solo in fotografia», esordì con fermezza. Conosce Volponi? «L'avvocato Volponi? Certo che lo conosco: l'ho visto qui parecchie volte». Cosa ricorda di quel 7 agosto? «Ho lavorato come sempre. Non ricordo niente di particolare. Qualcuno per le scale? No, non me lo ricordo proprio». Il portiere si mise a piangere, così in diretta tv: «Sono una persona pulita. Non ho niente da nascondere. Lasciatemi in pace ora, voglio stare con la mia famiglia». Vanacore rimase sospettato numero uno per lungo tempo. Poi un giorno, il 3 aprile 1991, la notizia: l'esame del Dna lo aveva scagionato. Il sangue trovato sulla porta dell'ufficio dove era stata uccisa Simonetta Cesaroni, non apparteneva a lui. Fu l'ultima occasione per un incontro ravvicinato con l'uomo che era finito in cella per l'omicidio di Simonetta.   Era trascorso tanto tempo e Giuseppa De Luca, la moglie, continuava a mantenere l'atteggiamento reticente verso la stampa. Pietrino Vanacore invece, si rese disponibile a scambiare poche battute con il cronista de Il Tempo. In fondo quello era un bel giorno: la perizia consegnata al giudice delle indagini preliminari Giuseppe Pizzuti, lo scagionava. «Come vuole che mi senta. Come si fa a essere tranquilli dopo quello che ho passato. Le ferite che porto dentro non si rimarginano. È tremendo essere additati come un mostro», dichiarò all'epoca.  

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