Emma e Marco, i mangiapresidenti
Decenni di dieta stretta, al limite qualche cappuccino e brioche sottobanco. Finché la fame divorante prevale: ma mica ci si contenta di una pajata. No, Emma & Marco cannibalizzano il Quirinale. Poco conta chi lo occupi. Eccoli lì: la contadina di Bra e il satanasso di Teramo, i Mangiapresidenti. È una vita che ripropongono il loro menù sanguinario: e sarebbe interessante capire cosa accadrebbe se, un giorno o l'altro, Madame Bonino finisse per abitare sul Colle. Nel frattempo deve accontentarsi di condividere il cucinotto radicale con il canuto compare. A guardarli farebbero anche tenerezza, l'uno il doppio dell'altra, come Sandra & Raimondo, invecchiati nel ruolo con la pretesa di essere tonici e gagliardi. Però occhio: a "Casa Pannella", quando lei comincia a scalciare sotto le coperte strillando "che barba, che noia", scatta il giochino perverso di sbranare il Capo dello Stato in carica. Cominciò con Leone: con i due plenipotenziari dell'antipartito lib-lib-lib (liberale, libertario, liberista, e per soprammercato libertino) ad affondare la mannaia sul corpo del giurista partenopeo, ferito ed estenuato dai diffamatori pamphlet della sora Camilla (Cederna) e dai servizi dell'Espresso, entrambi ispirati - e neppure troppo di striscio - dai fumi di Mino Pecorelli su "Op". Emma & Marco arrotarono la lama sui sospetti che il presidente fosse Antelope Cobbler, che attorno a lui roteasse lo scandalo Lockheed. E ne chiesero a gran voce l'impeachment, a fianco del Pci berlingueriano. Leone alla fine fu costretto a dimettersi, senza neppure imporre un'autodifesa pubblica. Eppure, non era certamente il gaglioffo disegnato nelle feroci caricature dei leader radicali. Al massimo, notava Montanelli, «difettava rovinosamente di stile», o come raccontava Andreotti «quando giocava il Napoli invocava santi poco noti. Sosteneva che quelli importanti fossero come gli avvocati impegnati in troppe cause». Ma poiché la Storia grande e piccola si pasce di beffe, vent'anni dopo quella macelleria istituzionale Emma & Marco chiedono scusa. È il 1998, Leone compie 90 anni e viene festeggiato al Senato. I due vogliono incontrarlo di persona, ma per essere certi che l'altro capisca gli scrivono una lettera-capolavoro: «Le siamo grati per l'esempio da lei dato di fronte all'ostracismo, alla solitudine, all'abbandono da parte di un regime nei confronti del quale, con le sue dimissioni altrimenti immotivate, lei spinse la sua lealtà fino alle estreme conseguenze, accettando di essere il capro espiatorio di un assetto di potere e di prepoteri», e bla bla bla. Chissà cos'avrà pensato, il vegliardo, nel leggere che «i suoi giustizieri, quanto vili, sono oggi più di allora padroni d'Italia», o qualche riga oltre Bonino e Pannella affermare che «poté accaderci di eccedere, ma non ne siamo convinti», prima di profondersi in scuse intinte in «affetto, fiducia e riconoscenza». Al tempo dell'epistola i Mangiapresidenti avevano già spalancato le fauci almeno altre due volte. La prima con Cossiga, nella fase di trasformazione da silenziosa ombra quirinalizia in lepre marzolina. Il presidente difese quelli di Gladio, rendendo noto quel che tutti, negli ambienti istituzionali, sapevano. Cioè che esisteva una struttura di "patrioti" inquadrata in un contesto militare più ampio e complesso: quello della Nato. Il giudice Casson volle vederci chiaro, ed ecco Pannella chiedere di nuovo l'impeachment, per "alto tradimento e attentato alla Costituzione". Ma stavolta Marco non si riempì lo stomaco: Cossiga si dimise di suo, prima di essere spolpato. E Scalfaro? I due Collivori ne avevano avallato entusiasticamente l'elezione alla più alta carica. Ma quando, nel '97, i leader radicali si videro falcidiata dalla Consulta la pletora di referendini (ne avevano proposti 30, si andò alle urne su 7, nessuno decisivo per le sorti della nazione, mica come aborto o divorzio), ecco l'ineffabile Marco divorare Oscar: «Lo volli presidente perché credevo che un dc potesse fare cose buone, ma ho commesso un errore. È un traditore dello Stato». Aridaje. Com'è noto, gli italiani seguirono in massa l'invito di Craxi ad andare al mare, il quorum non fu raggiunto, e la fissazione pannelliana per la consultazione popolare ci costò quella volta mille miliardi di lire. Quanto a Scalfaro, era ormai un nemico. Firmò la nuova legge sul finanziamento pubblico dei partiti e si sentì dire da Pannellone che quella era «una rapina e che come tutti i prepotenti, quando il presidente trova più potenti di lui obbedisce e diventa vile». Nel 2001 ce ne fu anche per Ciampi. Volendo «riproporre le richieste d'incriminazione per Cossiga e Scalfaro sul caso Moro e per l'uccisione di Giorgana Masi», Emma & Marco estesero l'accusa anche all'ex governatore di Bankitalia, per i suoi «inaccettabili silenzi istituzionali»: «Ciampi fa l'arbitro, ma questo non esclude l'illegittimità di questo comportamento davanti alla costituzione formale, che gli impone invece il ruolo di garante, mentre lui non garantisce niente». Però Carlo Azeglio riuscì a salvarsi dagli incisivi di Pannella, telefonando in tv da Costanzo, dove era ospite il gigante della non-violenza, inducendolo a interrompere uno dei suoi scioperi della sete. Meglio così: tra bavagli, brontolii ed assalti al cielo, con certi pacifisti-libertari è meglio non scherzare. Ne sa qualcosa Napolitano, che sente già un sinistro rumor di mandibole provenire da Casa Pannella.