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Bersani spiazzato rincorre Di Pietro

Pierluigi Bersani

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Il Quirinale preso d'assedio dal popolo viola. Sotto alle finestre del Capo dello Stato che ha appena controfirmato il decreto salva-liste un drappello «viola», cento persone circa, in sit-in autoconvocato. Seduti e sdraiati sui sampietrini con cartelli tardivi: «Presidente non firmare». E come se non bastasse a Montecitorio altri «Viola» intonano «Bella Ciao!». Finisce così una giornata alquanto travagliata per la sinistra. Pier Luigi Bersani che è stato spiazzato dalla firma di Napolitano aveva sbattuto i pugni sul tavolo. «È evidente - ha attaccato - che il governo vuole ovviare con il decreto a obiezioni di tipo costituzionale, come sarebbe stato con un decreto cosiddetto innovativo. Usano il decreto interpretativo per arrivare al risultato che gli serve per aggiustare il loro pasticcio; ma il trucco c'è e si vede. Avranno una ferma opposizione». Parole non molto distanti da quelle pronunciate da Antonio Di Pietro che definisce quanto accaduto «un golpe contro il quale occorre opporsi con una chiamata alle armi democratiche, infatti scenderemo in piazza». E se per Tonino si tratta di golpe, il collega dell'Idv Felice Belisario, ha rincarato: «La destra mostra il suo vero volto, quello ereditato dal fascismo. Berlusconi, come Mussolini, piega le regole e le leggi al proprio volere». Insomma Pd e Idv sembrano parlare con una sola voce. Ma in realtà le differenze ci sono. Per Di Pietro, infatti, la battaglia contro il decreto è manna dal cielo, un modo per indirizzare la campagna elettorale sul terreno che preferisce. Per Bersani, invece, la scelta è più travagliata. Il segretario del Pd avrebbe preferito che la maggioranza attendesse le decisioni del Tar prima di intervenire. Lo ha ripetuto anche ieri: «Interventi in corso d'opera aprirebbero una casistica da cui non usciremmo più. L'unica cosa sensata è aspettare la decisione dei diversi organi che devono giudicare». Meglio lasciare ai giudici il compito di sbrogliare la matassa che cercare un'intesa politica con la maggioranza (anche se parte del Pd, da Massimo Cacciari a Enrico Morando, spingeva in questa direzione). Dopotutto il governo ha rifiutato qualsiasi mediazione sulle comunali di Bologna perché il Pd dovrebbe comportarsi diversamente? Come potrebbe Bersani spiegare agli elettori della «sua» Emilia Romagna e del resto d'Italia un accordo? Insomma, vincere senza avversari non sarebbe un grande esempio di democrazia, ma perdere i propri voti non sarebbe un grande esempio di lungimiranza.

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