Ora serve il coraggio di prendere una decisione

Cari lettori, guardate bene la foto in prima pagina. Pioveva ieri pomeriggio a Roma. Pioveva su Piazza Farnese. Pioveva su migliaia di militanti del Pdl che si sono riuniti per chiedere una cosa elementare: poter votare il proprio partito. Correre alle elezioni e misurarsi con l’avversario politico. In Italia, una democrazia compiuta, Paese fondatore dell’Unione Europea, un tempo culla del diritto, l’esercizio del voto è finito sotto il rullo compressore del formalismo giuridico e di una magistratura che (forse) applica la legge, ma certamente non il buonsenso. Avevo scritto nei giorni scorsi che questa storia avrebbe colpito il Palazzo come un missile terra-aria lanciato da mezzo metro. È puntualmente accaduto. Perché un conto è parlare di liste, timbri, loghi e scartoffie varie, un altro è minare la piena rappresentanza, la democrazia sostanziale, il diritto di voto. Un conto è la tragicomica incapacità dei Gianni e Pinotto che hanno presentato le liste, un altro sono le garanzie costituzionali del corpo elettorale e del partito di maggioranza del Paese. Il diritto non può presentarsi come rovescio della democrazia. Perché il popolo alla fine batte i pugni, apre l’ombrello e scende in piazza. L’esclusione del Pdl dalla Lombardia e dal Lazio - prima e seconda regione d’Italia per pil - ha condotto naturalmente a un’impasse istituzionale che doveva essere affrontata dal Presidente della Repubblica (garante della Costituzione), dal governo (espressione della maggioranza) e dall’opposizione. La triangolazione tra Quirinale, Palazzo Chigi e Pd non ha prodotto una soluzione condivisa e, francamente, a questo punto c’è da preoccuparsi perché sembrano prevalere logiche lontane dalla politica e vicine a chi pensa a un potere legislativo sottomesso alla supplenza della magistratura in tutti i campi, perfino quello elettorale. Il Quirinale - Il presidente della Repubblica in questi giorni ha espresso la sua preoccupazione e la sua incredulità di fronte al pasticciaccio delle liste. Comprensibile reazione a cui però non è seguita né una reale azione di moral suasion, né un intervento politico sotto forma di esternazione sul processo di policy making in corso. Il Quirinale ha osservato la partita, espresso ragionevoli dubbi sulla «piena rappresentanza» in risposta a un appello di Gianni Alemanno e Renato Polverini, ma quando è stato chiamato a concorrere a una decisione ha opposto ragioni di diritto formale e di consenso politico. Il Colle non vuole un decreto in materia elettorale perché riguarderebbe una sola lista e soprattutto sollecita un accordo con il Pd. É da questo stop che Berlusconi e la maggioranza devono ripartire per cercare una soluzione. L’impresa è complicata ma non impossibile. Anche se le sponde istituzionali infatti sembrano ritrarsi, incapaci per ora di prendere una decisione che rimetterebbe la politica al centro della scena. Il Partito Democratico - Pierluigi Bersani ha messo di traverso il suo partito per ragioni tattiche e di alleanza. Una posizione che ha svelato il tasso zero di riformismo degli eredi del Pci. Nessuna reale apertura al dialogo e alla condivisione di una soluzione è arrivata dagli eredi di Berlinguer, schiacciati dagli estremismi dei radicali e di Di Pietro. Non si tratta di un sussulto di legalismo da parte del Pd, ma solo della difesa di un’inaspettata rendita di posizione che può condurre il Pd a vincere le elezioni in Lombardia e nel Lazio a tavolino. Se i pezzi sulla scacchiera restano così, un partito in crisi di idee e consenso, può ritrovarsi a governare la regione più ricca del Paese per assenza dell’avversario (Formigoni). Mentre nel Lazio, dopo un’avventura politica finita a luci rosse (Marrazzo) si ritroverebbe favorito (e forse vincente) perché alla Polverini manca la benzina (il Pdl) per poter cominciare almeno il primo giro. La prova di maturità di Bersani è rimandata, ma è ancora in tempo a far prevalere le ragioni della democrazia su quelle del singolo partito. Il Popolo della Libertà - Il Pdl rischia di uscire da questa prova con le ossa rotte. I suoi limiti organizzativi sono emersi come uno tsunami e la politica s’è incartata. Berlusconi con i suoi è finito in una valle, allo scoperto, mentre dalle alture gli avversari tirano le frecce. Come uscirne? Ieri un consiglio dei ministri era stato convocato per varare un decreto legge. Atto urgente la cui responsabilità è tutta in carico all’esecutivo. É il governo che decide dell’urgenza. Il Quirinale può firmarlo o respingerlo. E l’esecutivo può reiterarlo. Scenario impossibile in questa vicenda. La materia è delicatissima e il clima non consente all’esecutivo passi falsi, vista anche la marea montante delle inchieste, la battaglia infinita con la magistratura e il clima in Parlamento. Serve una soluzione condivisa. Oggi vedremo cosa deciderà Berlusconi, ma la via è stretta. Non può lasciare la palla in mano ai giudici amministrativi, dovrà farsi carico di definire una base d’intesa con l’opposizione e mettere tutti di fronte a una realtà: le elezioni non si vincono o perdono a tavolino, ma lasciando agli elettori l’ultima parola.