Berlusconi va all'assalto: "Magistrati talebani"
TORINO - All'inizio si è limitato ad una battuta: «Roberto Cota ha un unico difetto, quello di avere una moglie magistrato». Poi però, alla fine, pungolato dai cronisti, non ce l'ha fatta a non lanciare il suo affondo, attaccando ancora una volta i magistrati. Non tutti, chiarisce, «ma una buona parte di loro è costituta da talebani». Berlusconi parla di disegno eversivo già visto in atto nel '94. Ed è sempre «a questa banda di talebani» (in serata aggiungerà che quella della magistratura politicizzata «è la patologia più grave della nostra democrazia» peggio delle organizzazioni criminali) a cui il premier fa riferimento per dire che a causa loro «il consenso popolare non esiste più, dal momento che se una legge non piace ai pm viene impugnata e poi abrogata dalla Cassazione». Parole che provocano la reazione rabbiosa dell'Anm che va subito all'attacco di una «intollerabile escalation di insulti e aggressioni nei confronti dei magistrati italiani». Il capo del Governo parla di giustizia ed è un fiume in piena. Commenta la sentenza Mills e fa trasparire chiaramente la sua rabbia per «un reato mai commesso». Ma soprattutto, ancora una volta, si descrive come la principale vittima del sistema giudiziario italiano, ribadendo la necessità di fare quanto prima una riforma. Nella sala del Lingotto ci sono molto giornalisti, oltre che uno svariato numero di parlamentari piemontesi. Il premier è accanto al candidato governatore per il centrodestra Roberto Cota, leghista e piemontese doc. Si tratta della prima conferenza stampa del Cavaliere in questa campagna elettorale a sostegno di un candidato. Appuntamento che però arriva all'indomani della sentenza della Cassazione sul processo Mills: come dire, la domanda era inevitabile. Berlusconi non si sottrae, anzi. Ha voglia di parlare, e forse di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Prima l'intervento iniziale, tutto concentrato sugli elogi del programma di Cota e sul necessario rilancio del Piemonte, «regione regredita in mano alla sinistra». Poi gli slogan elettorali con l'ormai fissa chiamata «a scendere in campo» per un voto che non ha valenza locale, ma nazionale. A questo punto è chiara la virata del Cavaliere nelle ultime settimane: da quella che doveva essere una tornata elettorale low profile, o per lo meno senza il premier in campo, si è passati a dei veri e propri comizi con Berlusconi all'attacco. Fa intendere chiaramente il suo obiettivo finale: avere la maggioranza in conferenza Stato-Regioni (vuol dire conquistare sei regioni), aggiungendo poi con un sorriso «per una volta tanto». Berlusconi guarda alle prossime Regionali, offrendo anche una personale chiave di lettura del voto: la vittoria si potrà stabilire «contando gli elettori» e nel caso del centrodestra, avendo una «forte maggioranza di elettori rispetto alla sinistra», il numero di regioni «è meno importante rispetto al risultato globale». Fin qui, tutto avviene nella norma. È sulla Giustizia che poi il Cavaliere si infervora: volto tirato e pugno chiuso sul tavolo dei relatori, comincia a usare parole molto dure verso alcuni magistrati, descritti «come il male del nostro Paese». Sul caso Mills, intanto, non sembra pienamente soddisfatto: «È un'invenzione pura, noi non c'entriamo nulla. Voglio venirne fuori con una assoluzione piena». Davanti a questo scenario, non ci sono altre soluzioni se non quella di fare una riforma della Giustizia, sperando ironizza il premier «che me la facciano fare. Ogni qual volta ci ho provato mi hanno circondato con un nuovo processo». Altra domanda, le intercettazioni. Anche qui, nessun dubbio. Il governo andrà avanti con le modifiche, perché in questo modo è «uno Stato di Polizia». Il premier attacca anccora sull'uso che si viene fatto dalla stampa delle intercettazioni: la maggior parte delle telefonate pubblicate, spesso «rovinando le persone», si sono rivelate prive di utilità al fine di individuare dei reati». Dulcis in fundo, il caso del senatore del Pdl Nicola Di Girolamo. Una vicenda sulla quale finora non è mai intervenuto, per lo meno pubblicamente. Stuzzicato da un cronista in conferenza stampa, il premier innanzitutto ribadisce quanto detto più volte da esponenti Pdl in questi giorni e cioè che la legge sui deputati all'estero va cambiata. Dopodiché, sulla persona del senatore sotto accusa, prova a glissare («Non l'ho mai conosciuto»). Incalzato dalla stampa, ci riprova ancora («Non ho letto neanche i giornali su questa storia. Certo è un fatto grave»). Alla fine, però, quasi a denti stretti, cede e chiarisce che il senatore Di Girolamo «non è stato portato da gente di Forza Italia, ma da un responsabile di An. Non conosco neanche lui...».