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Fiorenzo Angelini «er monsignore» dei sette papi

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Leggendola lunga intervista rilasciata «col cuore» dal cardinale Fiorenzo Angelini all'Osservatore Romano di ieri, ritorna in mente Hemingway che definiva la saggezza dei vecchi un grande inganno perché «i vecchi non diventano saggi ma attenti». Nei ricordi così lucidi e attenti, appunto, del cardinale Angelini, novantaquattro primavere e settant'anni di sacerdozio (in assoluto l'unico porporato «romano de Roma» della Curia) c'è la storia del Novecento, i ritratti a tocchi rapidi e incisivi di personaggi chiave (e non) ma soprattutto il suo amore per Roma, quella di ieri e di oggi. E con lo stesso fervore la sua passione per il calcio e per la sua squadra, manco a dirlo, la Roma. «Sono figlio di un emigrato negli Stati Uniti d'America che, rientrato in Italia, fu costretto a vivere in condizioni di vita più che modeste. Eravamo buoni parrocchiani di San Lorenzo in Lucina, abitavamo a Campo Marzio» esordisce il porporato ricordando come il padre e il parroco sbarrarono gli occhi quando gli manifestò l'intenzione di diventare sacerdote. «Tu puoi al massimo diventare canonico di piazza!» rispose il buon prete. E invece «ci pensò la Provvidenza». E poi gli anni del Fascismo, le azioni squadriste contro i circoli dell'Azione cattolica, le censure e l'amicizia con Pio XII, il suo primo incontro con il Pontefice tra le macerie di Roma appena bombardata. «Quando tra le mani mi capita quella foto nella quale compaio accanto a Pio XII mentre prega tra le vittime del bombardamento della città, rivivo un momento emozionante, che ha indubbiamente segnato la mia vita. Ho conosciuto un uomo, un sacerdote, un vescovo, un Papa eccezionale». E ancora. «A lui, alla sua testimonianza devo molto della mia anima sacerdotale». A guerra finita il Papa gli affidò la pastorale dei malati e sofferenti nella Capitale. «Effettivamente nessuno aveva mai pensato prima che, in una città come Roma, i malati e le famiglie dei malati costituivano una diocesi nella diocesi» ricorda Angelini. «Pio XII capì la necessità di offrire a costoro un servizio pastorale privilegiato e specifico e mi affidò l'incarico. Fui ordinato vescovo il 28 giugno 1956 e da quel giorno iniziai a occuparmi dei malati ininterrottamente, si può dire sino ad oggi». E ricorda il prelato, che poi venne chiamato bonariamente Sua Sanità, che nei primi tempi girava per Roma con l'elenco telefonico per capire dove fossero ospedali e cliniche. Roma e la romanità, molte luci e qualche ombra. «La mia città, lo dico con dolore, ha perso molto del suo splendore nel senso cristiano». Un rammarico che non spegne la passione sportiva. «Ai tempi del seminario giocavo a pallone con la tonaca nera tirata su fino alla cintola. Non avevamo magliette e non sapevo come fare per indossare qualcosa di giallo-rosso, i colori della mia Roma. Mi feci portare una cinta giallo-rossa con la quale sorreggevo la tonaca. Ero felice». Da parroco fondò una squadra nel 1942, si chiamava Florentia, la maglia era gialla. Ma la realtà di oggi ha poco a che fare con tutto questo: «C'è qualcosa che ha distrutto la bellezza, la poesia, la verità dello sport. Lo sport è diventato un'industria, l'ideale di De Coubertin è stato stravolto». E a chi pensa che lui sia «un vecchio arroccato su posizioni passatiste» ricorda di «non rinnegare i valori per i quali ha vissuto». E poi rivela il suo elisir di lunga vita: «Amo così tanto il dono della vita che mi ha fatto il buon Dio da sentirmi perennemente giovane in lui. È una buona medicina. La consiglio a tutti».

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