Il senatore senza dignità si dimetta
Caro senatore Nicola Di Girolamo, per quanto non mi sia per fortuna capitato di conoscerLa e tanto meno di frequentarLa, come avrebbe potuto accadermi da giornalista parlamentare, sento il bisogno di chiederLe come mai Lei non abbia ancora avvertito il dovere di dimettersi. Non solo di dimettersi, ma anche di chiedere scusa non dico a tutti quei 25 mila emigrati in Europa che sono risultati due anni fa Suoi elettori, ma almeno a quelli che lo sono stati veramente e consapevolmente, senza cedere le loro schede ad altri perché le compilassero e spedissero, come sembra che per molti sia scandalosamente avvenuto. Anche se fossero stati solo in mille, o in cento, o in dieci a votare consapevolmente e direttamente per Lei, costoro hanno il diritto di reclamare le Sue dimissioni e scuse. Ma, caro senatore, abbiamo il diritto di reclamarle anche noi che non L'abbiamo votato in alcun modo, almeno sino a quando non sarà modificato o soppresso l'articolo 67 della Costituzione. Che dice, testualmente: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Ho una certa difficoltà a sentirmi rappresentare al Senato anche da Lei. E ciò, sia chiaro, non per i processi che probabilmente seguiranno alle pesanti accuse formulate nei Suoi riguardi. Resisto più o meno eroicamente anch'io, come il direttore Mario Sechi e tutti i colleghi di questo giornale, alla tentazione di abbassare la guardia del garantismo di fronte al profluvio di documenti giudiziari che La riguardano. E che, senza l'immunità parlamentare della quale gode, Le avrebbero già procurato le manette. So bene che Lei e i Suoi amici avete il diritto di essere considerati innocenti sino a sentenza definitiva di condanna. L'opportunità, anzi la necessità delle Sue dimissioni da senatore deriva dal modo in cui Lei ha esercitato il Suo mandato lasciandosi insolentire al telefono da quel suo cliente ed amico Mokbel. Quasi due anni fa, 4 giorni dopo il voto e 6 prima della proclamazione ufficiale della Sua elezione, Lei si faceva trattare così al telefono da chi riteneva di averLa mandata al Parlamento: «Se t'è venuta la senatorite è un problema tuo, Nicò...A me non me ne frega un cazzo di quello che dici tu. Puoi diventà pure presidente della Repubblica, per me sei sempre il portiere mio...Tu sei uno schiavo mio». Non c'è traccia di alcuna Sua reazione a questo linguaggio che La disonora da parlamentare. E con Lei disonora il Parlamento, da dove a questo punto farebbe bene ad allontanarsi da solo, prima che si riaprano, come si attende giustamente il presidente del Senato, le procedure di contestazione della Sua singolare elezione. Le dimissioni Le restituirebbero almeno un briciolo della dignità che quel giorno si è lasciata togliere al telefono.